[25/07/2007] Aria

Anche la produzione di biodiesel rientra nella direttiva Seveso

LIVORNO. La disciplina da applicare in caso di utilizzo di sostanze pericolose per la produzione e il deposito del biodiesel è quella sul controllo delle attività industriali a rischio di incidente rilevante (denominata “Seveso -bis” Dlgs 334/1999). Lo ha deciso il ministero dell’interno, dipartimento vigili del fuoco – area rischi industriali con nota dello scorso mese.
A seguito del quesito posto della Direzione regionale dei vigili del fuoco Friuli, il ministero ha affermato che l’assoggettabilità del biodiesel alla normativa italiana sui rischi industriali non dipende dall’origine della sostanza (vegetale e non minerale come i prodotti petroliferi) ma dalle caratteristiche fisico-chiche della stessa. Dunque, la sua origine va verificata tramite la scheda di sicurezza, perché il biodiesel non è elencato nell’apposito allegato della normativa. Occorre dunque verificare se la sostanza rientra in una delle categorie della parte seconda dell’allegato del Dlgs 334/1999.

La disciplina sui rischio industriale rappresenta uno dei settori del diritto ambientale maggiormente improntato al contemperamento tra le ragioni della produzione e le esigenze di tutela della salute umana e dell’ambiente. La prima disciplina organica in materia di rischio industriale è stata emanata dal legislatore comunitario – infatti il Dlgs 334/1999 recepisce ed attua le direttive comunitarie in materia. In questo settore ha svolto una vera e propria funzione propulsiva perseguendo l’obiettivo di una completa armonizzazione ed un omogeneo sviluppo delle leggi dei diversi Stati membri. Con l’imposizione di varie misure di sicurezza durante i vari stadi dell’attività, nella fase anteriore e posteriore di ogni singolo processo produttivo costituisce, infatti, il punto di partenza per una politica di prevenzione nel settore delle attività industriali a rischio di incidente rilevante.

La prima direttiva risale al 1982 (la così detta Seveso) e si presenta come la risposta legislativa al grave incidente verificatosi nel 1976 nello stabilimento chimico dell’Icmesa. Il 10 luglio del 1976 un valvola di sicurezza esplode provocando la fuoriuscita di alcuni chili di diossina nebulizzata. Il vento dissolve la nube verso est, nella Brianza e i casi di intossicazione aumentano fra la popolazione. Si parla per la prima volta di cloracne, che è il sintomo più eclatante dell’esposizione alla diossina: colpisce la pelle soprattutto del volto e dei genitali esterni, ma se l’esposizione è prolungata si diffonde in tutto il corpo. Può essere compromessa la funzionalità epatica e la inalazione del composto crea problemi respiratori.
Ma i danni non finiscono qui: il composto si deposita sul terreno, non è biodegradabile, penetra nell’organismo degli animali e nelle piante.
Anche se la diossina non uccise nessun essere umano al momento, distrusse un intero equilibrio eco-biologico e provocò la destabilizzazione socio-economica di una vasta area di territorio.
E a 31 anni di distanza si sospetta che il terreno sia ancora intriso di diossina nonostante che stabilimento sia completamente dismesso e sia stata eseguita la bonifica dei terreni più contaminati.

Ecco perché una legislatura comunitaria – e di conseguenza nazionale - che fissa una serie di meccanismi di prevenzione di sicurezza, di vigilanza di manutenzione e di pianificazione di emergenza e sistemi di controllo. Una legislazione che punta sull’importanza dell’informazione e della partecipazione dei cittadini. Che valorizza inoltre, lo stretto rapporto fra pianificazione territoriale e ubicazione degli stabilimenti industriali anche per evitare il così detto effetto domino. Evitare, cioè che una sostanza una volta entrata in contatto con un altra diventi nociva provocando gravi danni sia all’ambiente sia alla popolazione (ricordiamo il caso Bhopal del 1986).

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