[16/07/2007] Recensioni

La Recensione. Ambiente e paesaggio di Franca Canigiani

Che ne sarà della Terra quando le foreste equatoriali saranno state distrutte? Potranno le future generazioni godere dei grandi paesaggi terrestri così magistralmente descritti mezzo secolo fa da Biasutti? Saremo capaci di conservare i paesaggi straordinari della tradizione agricola e agro-forestale, mediterranea ed europea? Sarà capace la Toscana di tutelare “la più commovente campagna che esiste”?
Franca Canigiani, docente di Geografia nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze, comincia da queste domande/riflessioni la sua proposta di percorso didattico, sotto forma di idee, per i corsi di Geografia e discipline ambientali.

“Ambiente e paesaggio” è il titolo questa ultima fatica didattico/letteraria che parte dalla storia dell’ambiente come materia di studi interdisciplinare, per proseguire con le lezioni dei padri dell’ecologia e arrivare allo scenario attuale del pianeta in pericolo e al come si salvaguarda davvero il paesaggio toscano.
Proprio quest’ultima è la parte che fornisce gli spunti di riflessione maggiori, considerando che quella precedente è sostanzialmente introduttiva e utile soprattutto per un’infarinatura generale per chi si approccia per la prima volta, o quasi, alla materia. In particolare, l’appello di Canigiani si estrinseca nel paragrafo cinque dell’ultimo capitolo (“Per uno sviluppo sostenibile e partecipato”), che parte da un’osservazione di M. Quaini sull’opera a cura di Magnaghi “Rappresentare i luoghi”: la terra promessa della modernizzazione è diventata terra bruciata (nel senso ambientale, sociale, spirituale). Questa constatazione induce a un nuovo modo di pensare il territorio e la sua pianificazione.
«Occorre però – prosegue Canigiani - educare la gente a vedere, a vedere per capire, al fine di stabilire un rapporto positivo con il territorio in cui vive. Il valore dei beni ambientali e paesistici, deve lievitare negli uomini che vivono localmente. La comunità deve acquisirne consapevolezza, per poter incorporare nel presente il proprio passato».

Accanto a questa consapevolezza da acquisire e ai “nuovi modi di pensare” ci sono però anche le azioni da fare. Qui Canigiani entra nel merito della situazione toscana, partendo dal fatto che «la Regione si è finora rifiutata di dotarsi di un vero e proprio piano paesistico, optando per un piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali, nella convinzione di non dover separare la tutela del paesaggio dal governo del territorio. La legge regionale 1/2005 si apre opportunamente alle innovazioni introdotte dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, attribuendo alla pianificazione e alla gestione del territorio un ruolo determinante, e promette che il Piano di indirizzo territoriale avrà contenuto descrittivo, prescrittivo e propositivo, relativamente alle cosiddette “invarianti strutturali”, assunte come elementi cardine dell’identità dei luoghi (ossia le risorse, i beni da tutelare). Notevole rilievo viene anche assegnato alla partecipazione dei cittadini e delle istituzioni locali nelle procedure di individuazione dei beni paesaggistici (da tutelare, recuperare, riqualificare o valorizzare)».

Ma la cosa che mette maggiormente in evidenza Canigiani è che «nella pianificazione paesaggistica regionale resta decisivo il confronto tra le Regioni e il governo nazionale per due motivi: in primo luogo perché una infelice formulazione delle competenze (a seguito delle ben note modifiche al Titolo V della Costituzione) attribuisce allo Stato poteri esclusivi in materia di ‘tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali’, mentre assegna alle Regioni la ‘valorizzazione’ di tali beni (sempre spettando allo Stato la determinazione dei principi fondamentali); in secondo luogo, perché la tutela del paesaggio, come sancito dall’art. 9 della Costituzione, è preminente interesse della Repubblica e compete quindi alla totalità delle sue articolazioni statali, regionali, provinciali e locali». Quello che poi viene sottolineato ancora e con più forza nel testo è «la distinzione tra tutela e valorizzazione».

«E’ chiaro – si legge – che valorizzare significa ‘far aumentare di valore’. Un bene può avere un valore di scambio, quando può essere scambiato con altri beni; oppure valore d’uso, nel senso che può essere utile, può soddisfare un bisogno. Non potendo assegnare ai beni culturali (e quindi anche ai paesaggi individuati come tali), in quanto beni della nazione e quindi di tutti, un valore di scambio, non resta che proteggerli per il loro valore d’uso. A qual fine, dunque, separare le competenze?». E qui Canigiani lancia un appello: «Ci auguriamo che i piani paesaggistici regionali (compreso il Piano di indirizzo territoriale toscano, se esso vorrà configurarsi come tale), così come delineato dall’ultima stesura del Codice, siano efficaci e seri strumenti di pianificazione, censiscano con accuratezza i beni da tutelare e ne definiscano i modi d’uso e le trasformazioni ammissibili». E la ‘Geografia fiorentina’, in questo scenario, ha la possibilità di fornire un formidabile contributo attraverso il recente Atlante GeoAmbientale della regione Toscana, progettato e curato dalla professoressa Margherita Azzari. Questo infatti ha lo scopo di definire obiettivi e strategie di sostenibilità e svolgere una funzione informativa e di sussidio didattico per studenti e docenti, ma anche di stimolo e orientamento delle politiche territoriali, a livello regionale e locale.

Il contributo che “Ambiente e paesaggio” può dare anche al dibattito sulla salvaguardia del paesaggio in Toscana è evidente. Resta il fatto che mentre ancora si discute su chi abbia le competenze, sulle definizioni e sui piani da fare o da migliorare, si assiste ai casi Moticchiello e simili. Progetti o costruzioni già avviate – che poi la stampa definisce volta, volta scempi, ecomostri o via dicendo - che spuntano in qua e in là, perché magari sono riuscite a passare sopra o sotto a una legge, per il semplice fatto che risalgono agli anni ‘70 o ‘80.

Che fare dunque? La strada da seguire, e che probabilmente eviterebbe gran parte della discussione, dovrebbe essere quella che ogni intervento di trasformazione del paesaggio – cosa che l’uomo fa fin da quando è sulla terra – avesse come criterio direttore quello della sostenibilità. Questo anche perché non solo c’è da difendere alcuni paesaggi, ma ce ne sono anche altri da bonificare.

E per fare questo, oltre a decidere a chi spetta che cosa, serve una contabilità ambientale, questa sì condivisa, a livello di indicatori, che non sia un elenco delle cose che si fanno, ma che ci permetta di verificare fino in fondo cosa si può o non si può fare. Il punto invece – anche in parte nel testo - sembra sempre quello di stabilire di chi siano le competenze, limite evidente anche delle proposte dei comitati che chiedono più partecipazione e capacità decisionale dal basso, per poi richiamare il decisionismo dall’alto.
Una contraddizione, una delle tante, che si incontrano in questo dibattito dove in taluni casi sembrano perdersi di vista anche le priorità. Prendiamo così ad esempio quello tanto attuale della localizzazione degli impianti di energia alternativa, senza scomodare sempre quelli per i rifiuti.

Il fatto che sia condivisa da tutti, o quasi, l’urgenza di frenare le emissioni di C02 per contrastare i cambiamenti climatici non basta quasi mai a convincere chi poi quell’impianto se lo trova ‘nel giardino’. L’eolico è l’esempio nell’esempio più lampante, ma non è certo il solo: alla fine della fiera, il dibattito è soprattutto tra quelli a cui piace e quelli a cui non piace. Per cui secondo i primi non danneggia il paesaggio (fino a dire che lo esalta), mentre secondo gli altri lo devasta. Due punti di vista inconciliabili. E con un maggiore decisionismo dal basso o dall’alto siamo sicuri che si arriverebbe ad una soluzione condivisa?

Torna all'archivio