[20/06/2007] Urbanistica

Tutela del paesaggio, chi decide cos´è bello e cos´è brutto?

LIVORNO. Il tema messo in luce dai dati relativi al sistema delle sovrintendenze in emergenza, che non riescono a far fronte alle domande che giungono per pareri (vedi Sole24ore del 18 giugno), ha posto nuovamente il dito sul problema della tutela del paesaggio. Ma ha anche riportato l’accento su quale debba essere il livello in cui decisioni che riguardano appunto interventi che debbono inserirsi in un paesaggio più o meno modificato, vengono prese. E’ giusto cioè affidare il compito ad un organo centrale che abbia quindi una visione d’insieme o è invece opportuno lasciare che su questi temi la decisione venga presa più dal basso attraverso meccanismi che prevedono una decisone partecipata dei cittadini?

Ne abbiamo parlato con Manlio Marchetta, urbanista del dipartimento di urbanistica e pianificazione del territorio dell’Università di Firenze.

Professor Marchetta è possibile tutelare un bene come il paesaggio lasciando che a farlo siano gli enti locali e quindi che la tutela parta dal basso, o è preferibile che invece la tutela sia allocata in poteri più centrali?
«Il paesaggio – insieme indissolubile di grande rilievo culturale ed economico - costituito dai nostri territori e, in genere, dalle parti centrali delle nostre città si può tutelare anzitutto e soprattutto mediante l’espressione concreta della metodica della pianificazione urbanistica (unitariamente territoriale e paesaggistica), strettamente fondata sullo studio e sulla profonda conoscenza, preliminare e scientificamente orientata, dei luoghi e dei patrimoni.
Quindi gli Enti preposti alla stessa pianificazione hanno il dovere, non solo amministrativo, ma anche culturale di studiare a fondo il proprio patrimonio in modo del tutto preliminare rispetto a qualsiasi proposta di trasformazione, sia essa coerente con i caratteri studiati sia essa, come spesso avviene, incoerente o stravolgente. E hanno il dovere di utilizzare criteri scientifici, che esistono e come, nel passaggio fra conoscenza preliminare a sistemazione concettuale e normativa di tipo pianificatorio e, per questo, dotati di valenza a tempo indeterminato. Come lo sono i valori paesaggistici in campo. Alla pianificazione non possono non essere chiamati a partecipare da protagonisti ed attori fondamentali gli organismi che, attualmente, si limitano ad una azione di tutela. E non possono sin da principio essere chiamati a partecipare, da protagonisti altrettanto fondamentali, tutti coloro che, secondo i criteri innovativi della partecipazione tramite “forum” privi di recinti, mostrano interesse per il processo stesso».

E se le decisioni devono essere sovraordinate rispetto ad organismi più decentrati quali i comuni ad esempio, come si può coniugare un processo di partecipazione sempre più invocato dai comitati di cittadini con una decisione che sta in vece in capo ad un organismo più centrale?
«Ciò che accade in certi momenti, come l’attuale, non rappresenta lo stato ordinario dello sviluppo delle metodiche di decisione. Almeno rispetto ai temi dell’inserimento nel paesaggio del territorio e delle città, il metodo corretto e ordinario dovrebbe essere costituito non da decisioni estemporanee ma dal ricorso al metodo scientifico della pianificazione territoriale e urbanistica, fortemente incardinato sul quadro delle conoscenze ampiamente offerto da studi e discipline normalmente predefinite, cioè non costruite solo al momento delle decisioni ultime. I processi di partecipazione generalizzata possono sviluppare approfondimenti, riflessioni, correzioni di rotta. Ad esempio i sistemi dei cosiddetti “vincoli” devono potersi integrare nella pianificazione a tempo indeterminato, o anzi meglio, poter essere interpretati e dotati di caratterizzazione locale specifica e integrata del territorio e delle città. Al momento appare dispiegarsi un fronte di energie che tendono, al contrario, alla semplificazione ed al frazionamento esasperato e dannosissimo delle competenze».

Un processo democratico di partecipazione è auspicabile sempre, ma secondo lei in che rapporto sta con la sostenibilità ambientale?
«Il paesaggio territoriale e le stesse città devono essere innanzi tutto considerate come organismo generale della vita comunitaria, come espressione della organizzazione delle attività sociali, come soggetti per natura propria alla prevalenza degli interessi pubblici rispetto a quelli privatistici. Anzi i legittimi e decisivi interessi privatistici stessi non possono trovare orientamento, consistenza e prospettive temporali a lungo termine se non nella esistenza e nella persistenza di un quadro organico, aggiornato periodicamente, di previsione temporale della organizzazione degli spazi e delle attività pubbliche e a valenza pubblica. A tale scopo primario è evidente che i processi, consolidati o ancora da consolidare, della partecipazione contribuiscono alla espressione stessa del quadro organico. Tuttavia è altrettanto chiaro che esso, una volta prodotto in modo partecipato, può identificarsi pienamente solo negli strumenti della pianificazione territoriale e urbanistica. Tali strumenti non sono necessariamente opposti a priori ma sono , ben più incisivamente, decisamente diversi dalla sommatoria di proposte progettuali che nascono con l’impronta genetica dell’interesse privato».

Criteri assolutamente soggettivi come il bello e il brutto, ancorché possano avere dei riferimenti alti, come possono coniugarsi con interventi che a prescindere dal giudizio soggettivo, sono comunque buoni per la collettività? L´esempio può essere quello dei referendum, in cui si può accettare o ricusare un intervento partendo solo dal fatto che può o meno disturbare un paesaggio esistente, a seconda dei punti di vista (le pale eoliche o la tramvia di Firenze) ma che porta un beneficio per la collettività.
«Dal mio particolare punto di vista di studioso della pianificazione del paesaggio in genere e del territorio urbano e non urbano in specie, non esistono criteri soggettivi ma esistono criteri strettamente fondati su elaborazioni prettamente disciplinari tramite ricerche di base e sperimentazioni regolamentari non burocratiche. Uno di questi è il criterio dell’equilibrio, di matrice pubblica, della distribuzione di ciò che possiamo approssimativamente definire come elementi energetici primari. Progredisce invece talvolta, come in questo momento contingente, la subdola marcia della privatizzazione “squilibrante” generata da ondate di “piani che non sono piani”, “progetti che non sono progetti ma proposte di cantieri”, in quanto formati da mosaici incoerenti di trasformazioni del paesaggio e delle città che innescano squilibri gravi, nel paesaggio e/o nel territorio, anziché perseguire quegli equilibri che sommariamente definiamo “bellezza”, della quale però i cittadini -intesi però come comunità di interessi generali- e le stesse energie imprenditoriali hanno non secondaria ma grande necessità, per la connessa valorizzazione economica e sociale dei beni collocati in un contesto , appunto, equilibrato.

Riflettendo poi sul tema dei benefici per la collettività insediata nella città, il paesaggio urbano è anche il luogo in cui si concentra il bisogno degli individui di realizzare se stessi, mediante lo scambio sociale fra le persone oltre che mediante lo scambio delle merci e dei prodotti. Perciò la città non dovrebbe essere sottoposta, come ancora si usa fare e con poca reazione, soltanto a regole relative alle dimensioni geometriche, come quelle tipiche della maggior parte dei piani urbanistici attuali. E la distribuzione nel paesaggio delle attività aventi maggiore flusso attrattivo non dovrebbe essere decisa sulle base di progetti che rispondono a sollecitazioni episodiche e all’assenso di procedure di “forum”del genere in progressiva diffusione. Procedure diverse al genere referendario, strutturate con risposta semplice o, in verità, semplicistica per eccesso.

Torno quindi a confermare il ruolo dei piani globali ma nello stesso tempo dotati di precise previsioni della evoluzione e del riequilibrio del quadro paesaggistico e del quadro localizzativo , in quanto soli strumenti caratterizzati da una visione generale dell’interesse pubblico. Piani che dovrebbero essere costruiti mediante strumentazioni e metodiche tali da consentire la massimizzazione dello scambio sociale. della accessibilità e della mobilità rapida e di quella lenta e della fruibilità temporale dei servizi urbani. Con questa ottica ritengo possibile che , almeno sul piano del metodo, possano essere sciolti i nodi sui quali spesso si discute più vivacemente e genericamente, ovvero si indicono consultazioni con poco o insufficiente fondamento conoscitivo».

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