[12/06/2007] Aria

Il presidente verde del mondo

LIVORNO. Nel 1957, cinquanta anni fa, l’Unione Sovietica supera gli Stati Uniti d’America e invia il primo satellite artificiale nello spazio. Il presidente americano Dwight Eisenhower reagisce allo «schiaffo dello Sputnik» allestendo un grande programma di sviluppo della scienza e della tecnologia, che coinvolge l’intero paese, informa di sé la società civile e l’economia, e restituisce agli Usa la fiducia in se stessi oltre che la primazia nella capacità d’innovare.
Di recente Thomas L. Friedman, giornalista del New York Times, si è augurato che per restituire agli Stati Uniti la leadership morale e risolvere i gravi problemi di instabilità politica del mondo, il successore di George W. Bush alla Casa Bianca sia un «presidente verde», capace di affrontare e sventare la più grave minaccia che pende sulla testa dell’umanità: il cambiamento del clima.

George W. Bush – lo ha dimostrato anche nel corso del recente G8 in Germania – considera l’ambiente essenzialmente un freno per lo sviluppo degli Stati Unti. E come il padre, che lo ha preceduto alla casa Bianca, non è disponibile a mettere in discussione lo “stile di vita degli americani per salvare il pianeta”. Questo atteggiamento contribuisce a erodere l’immagine degli Usa nel mondo e, soprattutto, ha quasi un potere di blocco per avviare una politica planetaria contro il global warming, che coinvolga tutti i paesi, a economia matura, a economia emergente e a economia povera.

Il «presidente verde» del paese più ricco e influente e a tutt’oggi inquinante del mondo dovrebbe fare proprio come Eisenhower: reagire allo «schiaffo del clima» e allestendo un programma di sviluppo sostenibile paragonabile a quello che avviò la «corsa allo spazio», capace di coinvolgere l’intero paese – i suoi centri scientifici, le sue imprese, la società – e di convincerlo l’ambiente non è un freno, ma una nuova opportunità.

Noi ci auguriamo che il prossimo presidente degli Stati Uniti abbia il profilo disegnato da Thomas L. Friedman. Tuttavia pensiamo che un «leader verde» del mondo, sia pure in potenza, già esiste. Non ha il profilo di una persona, ma di un’Unione. L’Unione Europea. Che sta già varando quel «vasto programma» evocato dal giornalista americano. Ha deciso in maniera unilaterale di andare oltre il Protocollo di Kyoto e di ridurre le proprie emissioni di gas serra di almeno il 20% entro il 2020. Si è detta disponibile a promuovere un accordo internazionale per abbattere del 50% entro il 2050 le emissioni globali. Ha deciso che le energie rinnovabili costituiscano almeno il 20% delle fonti energetiche cui attingerà l’Unione a partire dal 2020. Ha un programma per lo sviluppo dell’efficienza energetica. Si accinge a finanziare con alcuni miliardi di euro progetti di ricerca scientifica e di sviluppo tecnologico in campo ambientale ed energetico.

Il mondo ha già, dunque, il suo «presidente verde»? Un presidente non ancora, ma un candidato sì. È un candidato atipico. Ha molte teste. Vive nel medesimo tempo a Bruxelles e in molte altre capitali d’Europa. Ma è un candidato autorevole. Che potrà vincere le elezioni virtuali alla guida verde del mondo se supererà quella che molti chiamano la «sindrome di Lisbona».

A Lisbona, nell’anno 2000, l’Europa annunciò di voler diventare la regione leader assoluto dell’economia dell’informazione e della conoscenza. Da allora l’obiettivo viene indicato in ogni occasione. Ma passi avanti verso la costruzione della leadership se ne vedono pochi. E così mentre il resto del mondo corre, l’Europa cammina a passo lento verso l’era della conoscenza.
Se l’Europa vuole diventare un effettivo «presidente verde» del mondo deve superare la discrasia tra la politica lucida dell’annuncio e la politica debole dei fatti. Né va della sua leadership. Ma, soprattutto, del futuro desiderabile dell’umanità.

Torna all'archivio