[11/06/2007] Comunicati

Sostenibilità sull´orlo di una crisi da Pil

LIVORNO. In questo primo vero week end d’estate, le due facce della stessa medaglia pubblicate dai nostri giornali sono, da una parte il Pil italiano che rallenta la sua crescita (rispetto alle previsioni annuali ma l´aumenta rispetto ai rilievi trimestrali); e dall’altra i consumi delle famiglie che riprendono a tirare e che quindi trasformano il temuto “stallo” dell’economia italiana in una “frenata” della crescita.

Come al solito si tratta di flash reali ma calcolati su basi talmente ravvicinate (i tre mesi) da scadere quasi nel ridicolo quando si pensa che talvolta per passare da un più a un meno è sufficiente il giorno in più dell’anno bisestile, la quinta domenica in un mese, o i due giorni di sciopero di qualche settore particolarmente incisivo.

Cos’è che quindi sarebbe calato in modo drastico in questi ultimi 3 mesi rispetto ai 3 precedenti? La pausa della produzione industriale, individuata anche dal ministro Pierluigi Bersani nel suo commento ai dati Istat: minore produzione, maggiore utilizzo delle scorte e minori investimenti sui processi produttivi (ma questo non ha certo conseguenze sul brevissimo periodo).

Ma quest’ultimo capitolo non è certo una novità, se si pensa a quanto ci si ostini a credere che il valore aggiunto dell’economia italiana sia solo il made in Italy, la tradizione e la creatività: un gruppo internazionale di ricercatori ha analizzato i prodotti lanciati all’estero raccogliendoli in cinque macro trend (Body & soul, Wonderland, Retrospective, Individuelle, pleasure principle, nomi tutt’altro che italian style….). Lo studio dovrebbe servire a indirizzare il made in italy verso lo sviluppo di nuove idee di prodotto, che sostanzialmente posso essere tradotte così: il design prima di tutto, il packaging subito dopo, un po’ di qualità e infine il prezzo, con tanto di case histories significative, come il food designer che ammonisce che «alcuni imprenditori sono talmente concentrati sul passato e sulla tradizione da perdere di vista l’innovazione». Ovviamente innovazione di prodotto all’insegna dell’estetica e alla faccia dell’etico. Parrebbe una stroncatura proprio dell´idea di produzioni tradizionali legate al territorio.

Se però torniamo a ragionare sui dati forniti dall’Istat e allarghiamo lo sguardo all’Europa si scopre (proprio una novità non è, ma per questo è ancora più grave), che a trainare l’economia del vecchio continente è tornata la Germania (che da qualche anno viene imitata con buoni risultati anche da Spagna e Francia): dietro c’è un’accorta politica industriale e soprattutto una potente ricerca scientifica al servizio dell’industria, finalizzata non solo all’innovazione di prodotto, ma soprattutto a quella di processo in versione sostenibile. E infatti l’economia tedesca si basa essenzialmente sulle esportazioni (di tecnologia), mentre l’Italia, quando riesce ad esportare qualcosa, esporta soprattutto prodotti: la creatività che funziona, ma che perde la sua spinta propulsiva nel giro di pochi mesi…. Giusto il tempo di essere copiata…

Intanto però il tempo è quello delle interminabili litanie sull’ansia da Pil, che cancella in un batter d’ali tutte le riflessioni sul post G8, anzi, più che le cancella le ignora: lo stiracchiato compromesso sul clima elargito da Bush all’Europa non pone vincoli, ma generici impegni sul fronte emissioni: lascia cioè mano libera alla illimitata (teoricamente) produzione e agli illimitati (teoricamente pure questi) consumi, nella speranza nel frattempo di trovare tecnologie che garantiscano agli americani di mantenere il loro american style of life. A linkare le due questioni (secondo la logica più consumi uguale più produzione uguale più emissioni) nessuno ci prova. Neppure i media più attenti, impegnati per lo più a far la conta dei successi (?) del movimento no global riferibili, purtroppo e per lo più, all´efficacia del folklore nelle manifestazioni anti G8.

E allora per tirare un po’ su il morale registriamo che mentre Thomas L. Friedman, noto columnist del New York Times ed esperto di tecnologie ambientali, sostiene che per riaffermare il prestigio degli Stati Uniti «la prossima amministrazione americana del dopo Bush ha una sola strada: diventare leader nella tutela dell´ambiente, perché é necessario cambiare percorso se gli americani vogliono conservare il loro stile di vita» (appunto!), dall’altra parte ci sono ben 522 sindaci statunitensi che hanno già aderito al protocollo di Kyoto: rappresentano 65 milioni di americani, e ogni Comune sta lavorando con strumenti diversi per raggiungere l’obiettivo condiviso di ridurre entro il 2012 il livello di emissioni a una soglia inferiore al 7% rispetto al 1990.

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