[11/06/2007] Monitor di Enrico Falqui

Miti della crescita e della decrescita

E’ noto a tutti che il Prodotto interno lordo (Pil) è definito come il valore totale in danaro del flusso dei prodotti finali di una nazione in un dato anno.
In altre parole, esso rappresenta la somma dei valori dei consumi finali più quella degli investimenti e della spesa governativa, alla quale si aggiunge quella delle esportazioni sottratta del valore delle importazioni.
Alla base di questa definizione, sta la tesi preferita tanto dagli economisti tradizionali quanto da quelli di ideologia marxista che le possibilità della tecnologia non conoscono limiti e che, nella società contemporanea si riuscirà sempre a trovare un sostituto per una risorsa divenuta scarsa ed anche ad aumentare la produttività di qualsiasi tipo di energia e di materia prima.
Tuttavia, oggi sappiamo che il Pil può aumentare più di qualunque input di materia prima o di risorse minerali, anche se la tecnologia rimane costante o anche se si deteriora .

Se un’azienda industriale investe troppo per automatizzare la produzione in massa di una nuova merce, per la quale poi non c’è domanda, bisogna ridurre di molto i volumi prodotti.
Ciò significa che i costi fissi incideranno molto di più e la nuova merce sarà venduta in perdita.
Questo fenomeno economico è accaduto spesso negli ultimi anni in molti Paesi europei, in conseguenza di una competizione furibonda tra merci prodotte nei Paesi ricchi occidentali e merci prodotte nei Paesi in via di sviluppo. La spietata concorrenza condotta nell’ultimo decennio tra le industrie automobilistiche occidentali e quelle sorte nei paesi del sud-est asiatico ne è una evidente conferma. In alcuni casi, la situazione è stata tanto disastrosa da consigliare la chiusura della nuova unità produttiva prima che essa sia stata ammortizzata e il danaro investito in quella fabbrica automatizzata va considerata come una perdita pertinente all’anno in cui si è decisa la chiusura di quello stabilimento.

Il fatto paradossale, però, consiste nel fatto che registrare in perdita quell’impianto non porta a diminuire il Pil, anzi lo fa aumentare. Ciò accade perché il Pil misura un flusso, ma non è legato affatto al livello di attività o patrimonio, come accade invece per i flussi dei profitti e delle perdite di un’azienda. In altre parole, se le scelte di strategia economica di un sistema di aziende fondamentali per l’economia di un Paese si rivelano, nel breve-medio periodo, sbagliate e tali da costringerle a chiudere alcune linee di processo, si avrà un indebolimento del patrimonio di tale sistema di imprese, che potrà avere conseguenze disastrose se i cespiti patrimoniali producevano beni o reddito. Ma tutto questo non farà diminuire di una virgola l’indicatore di crescita del Pil di quel paese.

Nei primi anni ’70, a Gioia Tauro, in Calabria, circa mille ettari di aranceti sono stati distrutti
per costruire un grande porto, destinato a servire il 5° centro siderurgico italiano per incrementare lo sviluppo industriale del Sud ed eliminare (così si prometteva allora) povertà e disoccupazione. Dopo breve tempo ci si accorse che non c’era alcun bisogno di una nuova acciaieria, poiché vi era, già allora, una crisi di sovrapproduzione dell’acciaio e la domanda di esso era in calo in tutta Europa. Le acciaierie di Gioia Tauro non furono mai completate, non fu prodotto un grammo di acciaio e pochi mesi dopo tale progetto venne sostituito da un’idea altrettanto sbagliata: quella di realizzare una delle più grandi centrali a carbone di tutta Europa, con relativo scalo portuale e terminal per stoccare il carbone.
Passarono pochi anni e anche questo progetto fallì ma nel frattempo gli aranceti della Piana di Gioia Tauro erano andati perduti e la produttività di quell’area risultò nel bilancio globale negativa. Ma la stessa cosa non accadde per il Pil che, anche in conseguenza di quelle strategie sbagliate, continuò a salire.

In quegli stessi anni (1972), un celebre studio intitolato “ A Blueprint for Survival”esprimeva la speranza di una possibile fusione tra economia e ecologia, in quanto l’attività economica di ogni generazione ha un’influenza su quella delle generazioni future.
Ma l’economista Georgescu-Roegen annotava che uno dei più importanti problemi ecologici per il genere umano consisteva nel rapporto fra la qualità della vita di una generazione e quella di un’altra , “……più specificatamente la distribuzione del patrimonio del genere umano fra TUTTE le generazioni.”
Al riguardo, il celebre economista affermava che “l’economia non può nemmeno sognare di risolvere questo problema poiché il suo oggetto è l’amministrazione di risorse scarse…e che questa amministrazione riguarda solo UNA generazione”. Ogni generazione può utilizzare tutte le risorse terrestri e produrre tutto l’inquinamento che vuole in base alla sua sola offerta; le generazioni future non sono presenti, semplicemente perché non possono farlo sul mercato odierno.

In altre parole, se oggi molte critiche nei confronti del Pil hanno messo in evidenza come esso non rappresenti un indicatore efficace dello stato di benessere degli abitanti di quel paese e della qualità dell’ambiente in cui vivono, poiché esso non tiene conto delle diseconomie esterne, poche riflessioni sono state invece fatte sulle conseguenze che derivano dal fatto che il Pil esprime l’idea di una crescita economica anche quando essa contrasta con la produttività e l’effettiva efficacia delle strategie economiche adottate in un paese per risolvere cruciali problemi del suo sviluppo.
Da questo punto di vista i teorici della decrescita formulano una reazione uguale e contraria all’ipotesi di una crescita economica che in realtà non c’è, e che appare tale solo perché anche ciò che produce riduzione della produttività, perdita del patrimonio di impresa viene considerato “ incremento” e non “ decremento” del Pil.

Negli ultimi anni, però, gli studiosi di economia dell’ambiente hanno fatto grandi passi avanti nella direzione di una classificazione del valore economico degli ambienti naturali.
E’ noto che in ecologia ogni ecosistema produce dei servizi dai quali l’uomo ne trae un vantaggio: la ricostituzione di un bosco fluviale in città riduce la quantità di anidride carbonica dispersa nell’aria ammalata della città, migliora il microclima urbano, permette le rinascita di ecofield appropriati per gli animali che abitano le aree di transizione fluviale, migliora l’azione fito-depurativa delle acque fluviali, arricchisce la biodiversità dell’habitat , migliora il paesaggio urbano.
Tuttavia questi “servizi” ecologici e il bene in sé ( il bosco fluviale) non possiedono un prezzo di mercato ed esiste una forte incertezza sul loro vero “valore”. Poiché i singoli cittadini utenti e i responsabili delle decisioni politiche devono decidere tra alternative è assolutamente necessario conoscere esattamente cosa viene scambiato e in cambio di cosa.

Un modo per capire quale sia il vero “valore” di un bosco fluviale che ritorna ( attraverso la progettazione ambientale e paesaggistica ) a “occupare” un’area marginale dello sviluppo urbano, quali sono oggi la maggior parte degli ecotoni fluviali, è quello di chiedere ai cittadini quanto sarebbero disposti a “pagare” il prezzo della rinaturalizzazione di quell’area, tenendo conto che essa andrebbe a svolgere un’importante funzione sociale nell’uso del tempo libero per attività culturali e ricreazionali.
Nella realizzazione di molti parchi fluviali urbani in diverse città nordeuropee si è usato proprio questo metodo denominato di “valutazione contingente” per definire con l’aiuto dei cittadini il valore dei beni e dei servizi ambientali che si intende tutelare o mettere nuovamente a disposizione di essi in qualità di beni pubblici.
Usando questo metodo, potremmo scoprire, ad esempio, che vi è non soltanto un consenso più esteso di quanto siamo portati a credere verso la pianificazione di nuovi Parchi ed aree protette, ma che l’illustrazione completa di quali siano i “servizi” ecologici (oltre che sociali ed economici) che tali habitat naturali producono alla collettività stimolerebbe anche una maggiore attenzione verso il “prezzo” da attribuire per ciascun visitatore del Parco e dell’area protetta.

Nonostante che nel 2005 si siano registrate in Italia oltre 76 milioni di presenze nei 23 parchi nazionali, nelle 24 aree marine protette, nelle 146 riserve naturali statali, nei 120 parchi regionali,nelle 342 riserve naturali regionali, nella maggior parte di questi territori l’ingresso ai santuari, alle oasi ai percorsi eco-museali in essi contenuti, avviene in modo gratuito, sulla base di un ragionamento opposto a quello che ha portato gli economisti ambientali a definire il valore dei beni ambientali e dei loro servizi. Anche per questo le risorse finanziarie dei Parchi sono sproporzionatamente inferiori ai valori dei “servizi ecologici” che essi forniscono. Anche attraverso questa sottovalutazione del messaggio che arriva ai cittadini utenti si consolida l’idea consumistica che la Natura è un bene privo di valore e autorizzando chicchessia a farne l’uso che più ritiene conveniente agli interessi individuali delle presente generazione, senza tener conto dei “bisogni” delle generazioni future, le quali saranno costrette a pagarsi il costo di una progettazione artificiale degli spazi per il proprio benessere psico-fisico, per lo svago e le attività culturali all’aperto.

Primo Levi disse una volta che “dovremmo guardarci dai falsi profeti, ma poiché è molto difficile distinguere i profeti falsi da quelli veri, dovremmo guardarci da tutti i profeti”,anche da quelli che ritengono la teoria delle decrescita come l’unico antidoto efficace alla teoria della crescita illimitata. La conferma più efficace di ciò, viene proprio dalle parole di Georgescu-Roegen: «L’errore cruciale consiste nel non vedere che, in un ambiente finito, non solo la crescita ma nemmeno uno stato di crescita zero, anzi, addirittura nemmeno uno stato di conservazione che non converga verso l’annichilimento, può esistere indefinitivamente».
Ecco perché conviene perseguire l’obiettivo di una progressiva affermazione della “Bio-Economia”, non come fusione ma come sintesi tra Ecologia ed Economia classica, piuttosto che scegliere la strada di un’impossibile decrescita …che non porterebbe neanche felicità.

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