[18/05/2007] Comunicati

Cosa sa l´americano medio del protocollo di Kyoto? «Zero»

LIVORNO. Il prossimo G8 in programma a Rostock in Germania verterà principalmente sul tema del clima. Tappa obbligata e fortemente voluta dalla presidenza tedesca di turno, all’indomani della pubblicazione dei tre rapporti dell’Ipcc, ma anche dei provvedimenti adottati in sede Ue con i famosi tre obiettivi al 2020 (riduzione delle emissioni di gas serra del 20%, uso di fonti rinnovabili per il 20%, uso di biocarburanti per almeno il 10%).

Ma i lavori in vista del prossimo G8 sono iniziati se possibile ancora più in salita rispetto alle altre volte. Nelle riunioni che si tengono in queste settimane in preparazione del vertice i rappresentanti di Washington hanno chiesto di cancellare dalla bozza di documento gli impegni a non far innalzare la temperatura del pianeta oltre i 2 gradi centigradi nel corso di questo secolo e a dimezzare le emissioni di anidride carbonica entro il 2050. Obiettivi che nel testo originale, preparato dalla presidenza tedesca, vengono definiti «imperativi».

Nulla di sorprendente considerando l’atavica predisposizione di Bush a negare protocollo di Kyoto e riscaldamento globale. Ma quello che sorprende maggiormente è che questi tentativi di dirottare il tema del prossimo G8 passino quasi totalmente sotto silenzio: in Italia ne ha scritto soltanto l’Unità, nel giorno in cui gli altri quotidiani parlavano di un’apertura di Bush sul clima perché, costretto da una sentenza della Corte Suprema Usa, ha chiesto all’Agenzia federale per l’Ambiente di regolare in qualche modo l’emissioni di autoveicoli e centrali entro la fine del suo mandato.

Ma la notizia non è stata ignorata solo dalla stampa italiana. Noi ne parliamo con Roberto Rezzo, inviato dell’Unità a New York., al quale chiediamo di spiegarci meglio la situazione e l’apparente contraddizione dell’atteggiamento degli Usa.
«La contraddizione in effetti è solo apparente. La linea che segue Bush dal 2001 è quella di promettere grandi cose senza prendere impegni reali, basandosi esclusivamente sul principio dell’autoregolamentazione. Il governo Usa era riuscito a evitare che l’Epa regolamentasse le emissioni di Co2 con l’argomentazione che non è un gas tossico, ma fortunatamente la sentenza della Corte suprema ha fatto a pezzi questa tesi, sostenendo che l’Epa non si può rifiutare di attivarsi per la riduzione del principale gas responsabile dell’effetto serra. Di fronte a una sentenza del genere, e alle cause intentate da diversi stati che si sono mossi autonomamente, l’amministrazione ora corre ai ripari dando incarico all’Epa di creare una regolamentazione entro il 2008, compatibilmente coi costi, con le tecnologie disponibili e con la sostenibilità economica».

E’ comunque un primo impegno.
«No, in pratica avvia un processo burocratico che necessariamente non si traduce in alcun impegno vincolante alla riduzione. L’obiettivo di ridurre infatti è tendenziale e subordinato sempre e comunque alla tecnologia disponibile e alla convenienza economica».

E sul piano internazionale?
«I negoziatori di Washington sono stati incaricati da Bush di fare il possibile per cancellare i punti più caldi. Per esempio nella versione riscritta e sostenuta dalla delegazione americana spariscono nell’ordine: la clausola che recita «è in corso un’accelerazione delle mutazioni climatiche che danneggerà l’ambiente naturale comune e indebolirà severamente l’economia globale... è necessaria un’azione urgente e risoluta»; la frase «siamo profondamente preoccupati dalle ultime conclusioni confermate dalla Commissione intergovernativa sul cambiamento di clima (Ipcc)»; l’impegno a mandare «un messaggio chiaro» sugli sforzi internazionali per contrastare l’aumento della temperatura del pianeta al prossimo tavolo di negoziati che si terrà a novembre all’Onu; gli obiettivi sul miglioramento dell’efficienza nel settore dei trasporti e in quello dell’edilizia; il protocollo d’intesa per la creazione di un mercato globale del carbone. Insomma si tratta di un vero e proprio scempio che di fatto mette gli Usa su un altro binario rispetto a tutte le principali potenze del mondo industrializzato».

Tutto questo cosa significa?
«E’ un pessimo segnale perché se gli Stati Uniti si tirano indietro diventa più difficile convincere altri Paesi, uno su tutti l’India, che sul Protocollo di Kyoto si trincerano dietro al fatto che il problema l’hanno creatio i Paesi ricchi e se leo devono risolvere loro. Gli Usa poi stanno innalzando muri contro la proposta di creare un’agenzia internazionale sul clima alle Nazioni Unite, perché questa vanificherebbe la regola aurea degli Usa dell’autoregolamentazione dell’industria. Ora tutto sta a vedere fino a che punto l’Europa, ma mi sento di dire la Germania e l’Inghilterra riusciranno a tener duro».

In Italia questa ulteriore chiusura Usa sul clima non ha avuto molta eco. Nel resto del mondo se ne è parlato? E come?
«Guardi in America non ne ha scritto quasi nessuno. Qualcosa di più è uscito sulla stampa europea, in particolare sui quotidiani tedeschi. Poi ho sentito qualcosa anche sulla Bbc».

Ma l’opinione pubblica americana che cosa ne pensa del Protocollo di Kyoto e degli sforzi europei sul fronte della riduzione dell’inquinamento?
«Zero. L’uomo comune americano che non vive in quegli stati come California e Massachuttes che hanno cominciato a intervenire sui temi ambientali non si pone proprio il problema. E quando se ne parla viene subito tirato fuori lo spauracchio dell’aumento dei costi. Per quanto riguarda il protocollo di Kyoto probabilmente l’americano medio neppure l’ha mai sentito nominare e degli impegni europei francamente non so che dire… basta pensare che sono in pochi quelli che distinguono l’Austria dall’Australia».

Da parte di grandi gruppi industriali Usa però è arrivata la richiesta di regole certe sul fronte delle emissioni. Non è strano che il mondo economico chieda alla politica di intervenire a fissare paletti sui propri processi produttivi?
«Anche in questo caso la contraddizione è solo apparente, perché quello che la grande impresa teme di più è l’incertezza, il non sapere cosa succederà fra qualche anno. Inoltre è proprio la frammentazione di normative statali l’incubo delle multinazionali. Loro hanno bisogno uno standard e quindi è meglio sapere ora e correggere ora le proprie produzioni, anziché ritrovarsi tra 5 anni con un prodotto che per esempio non può essere venduto in California, o con una fabbrica in Massachuttes che deve essere smantellata e spostata da un’altra parte. Ovviamente queste richieste arrivano da tutto il mondo economico tranne che dalle lobbies del petrolio e del carbone che hanno in mano gli agenti inquinanti e che hanno tutto l’interesse a restare il più a lungo possibile in questa situazione. Ed è risaputo e acclarato che l’amministrazione Bush è totalmente espressione di questa lobby energetica».

Torna all'archivio