[24/04/2007] Energia

Cina in bilico fra sostenibilità e vecchie strade nucleariste

LIVORNO. La Cina, divenuta ormai un gigante economico, lavora come una formica per garantirsi le necessarie riserve energetiche per far fronte al consumo famelico del settore industriale.
Divenuta importatrice netta di carbone con una quota da record assoluto registrato nel marzo scorso: 5,67 milioni di tonnellate, che rientrano nei14,3 milioni importati nel primo trimestre 2007, a fronte delle 11,4 milioni esportate. Un incremento del +60,6% di import rispetto al –31,9% dell’export rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

Del resto nel mix di combustibili per soddisfare il fabbisogno energetico della Cina il carbone ricopre il 69% del totale e rimarrà, come previsto nel piano quinquennale, a quota 66%. A seguire lo stock energetico sarà garantito dal petrolio per cui si punta a mantenere stabili le proprie riserve così da garantirsi un accantonamento pari «grosso modo al valore di 30 giorni di importazione» come ha dichiarato ieri il vice presidente della National reserve and reform commission. Ma a fianco del carbone, il colosso asiatico ha deciso, dopo qualche tentennamento, di puntare al nucleare, prevedendo un piano di investimenti di oltre 50 miliardi di dollari che dovranno servire entro il 2020 a quadruplicare la propria capacità di energia elettrica prodotta attraverso l’uso dell’atomo. Questo significa che agli attuali 9 reattori in funzione se ne aggiungeranno altri 30 per passare da 9mila megawatt a 40mila megawatt di energia elettrica prodotta con il nucleare.

Una scelta che fa pensare ad un tentativo di bilanciare le quote di emissioni di Co2 prodotte con l’uso del carbone e che comporterà un incremento di ulteriori importazioni verso la Cina di combustibile atomico, ovvero uranio, di cui i massimi produttori sono (oltre il Canada) l’Australia da una parte, da cui già oggi la Cina si rifornisce di carbone, e i paesi africani, su cui da tempo il management asiatico sta intessendo una rete di relazioni a vario livello. Ma anche un nuovo flusso di tecnologia impiantistica di cui l’Europa assieme a Russia e Stati Uniti è tra i principali detentori. Una tecnologia che se ha investito molto in termini di maggior sicurezza è però ancora piuttosto ferma sia per quanto riguarda il problema del trattamento delle scorie, sia per quanto riguarda il decommissioning delle centrali dismesse, sia anche per l’aspetto legato alla non rinnovabilità del combustibile. Un deciso ricorso alla produzione di energia elettrica da nucleare, che rispetto ai combustibili fossili offre il vantaggio di non produrre emissioni climalteranti, significa infatti erodere in tempi stimati entro i prossimi cento anni (70 o 80 secondo le attuali stime di implementazione delle centrali atomiche) le attuali riserve di uranio che ammontano a circa 4 milioni di tonnellate.

Nel mondo, nonostante la crisi che ha investito l´industria nucleare occidentale, sono più di 440 le centrali che stanno attualmente producendo elettricità con la tecnologia nucleare. Di queste, un centinaio sono installate negli Stati Uniti, circa 130 in Europa (più di 50 in Francia), una cinquantina in Giappone, altre in Russia, Sud Africa, Argentina, Brasile, Canada, Messico, Taiwan, Corea del Sud, Cina, India.

Una scelta quella del ricorso all’energia atomica, che sembra guardare più al medio che al lungo periodo, cui anche l’Europa non rinuncia per garantirsi un mix di fonti con cui produrre energia e al tempo stesso mantenere fede agli impegni vincolanti di ridurre del 20% le emissioni di Co2 entro il 2020, e presentarsi così ai prossimi negoziati per il post Kyoto 2012, con un maggior peso nelle decisioni a venire. Decisioni cui dovrebbe partecipare anche la Cina.

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