[16/04/2007] Consumo

Ecologia, economia, Stato e mercato

Semplificando un po’, il dibattito sui rapporti fra economia ed ecologia oscilla fra due posizioni estreme. Da un lato la posizione di coloro che attribuiscono al mercato, e in particolare alla sfrenata ricerca del profitto che del mercato è caratteristica definitoria, la responsabilità del degrado ambientale; dall’altro quella di chi ritiene che il mercato, proprio in quanto meccanismo potentissimo di risposta agli incentivi di profitto, sarà perfettamente in grado di produrre qualità ambientale nel momento in cui la domanda di questo stesso bene, come parrebbe accadere perlomeno nelle economie più avanzate, cominci a manifestarsi in modo sostenuto.

Ciascuna di queste due posizioni estreme è, dal punto di vista dell’analisi economica, assolutamente imprecisa. Tuttavia, esse costituiscono un ottimo punto di partenza per cominciare un ragionamento sistematico su economia, qualità ambientale, ruolo dello stato e sostenibilità (ambientale ma non solo) dello sviluppo.

Innanzitutto, che cosa produce il “mercato” (ovvero la libera scelta di imprese che non rispondono a null’altro che ai propri calcoli di convenienza)? Vi sono oggi moltissime città nel mondo in cui l’acqua imbottigliata in confezioni costose è disponibile ad un prezzo che si possono permettere soltanto coloro che si trovano nel 10% più fortunato della distribuzione del reddito; il restante 90% molto spesso non ha neppure a disposizione semplice acqua potabile.

Allo stesso modo, nella gran parte dei paesi del mondo – anche in quelli poveri – sono presenti ospedali privati che dispongono di tecnologie all’avanguardia ma i cui servizi, ovviamente, sono a disposizione esclusiva di chi se li può permettere. Nello stesso tempo, siamo incapaci di produrre, ad un costo tremendamente inferiore, letti e medicine da mettere a disposizione di chi muore di tubercolosi o dei milioni di bimbi che soffrono di cecità prevenibile. Il punto dovrebbe essere chiaro, eppure è così frequentemente dimenticato: il mercato produce ciò che viene domandato; ciò che viene domandato è deciso da chi dispone di potere d’acquisto e nella misura in cui ne dispone.

Prescindendo per ora da quanto il mercato produce, la risposta alla domanda relativa al cosa il mercato produce dovrebbe essere chiara: la composizione della produzione complessiva di una economia – bottiglie d’acqua in confezioni costose per pochi piuttosto che acqua potabile per tutti, cliniche lussuose per pochi piuttosto che sanità di base per tutti – dipende dalla distribuzione del reddito e da ciò che i soggetti appartenenti ai diversi segmenti della distribuzione del reddito desiderano consumare e sono in grado di domandare.

Per rendere il punto ancora più chiaro e poter proseguire nel nostro discorso immaginiamo una società in cui vivano 100 persone, 10 delle quali – “ricche”- dispongono di un reddito pro capite pari a 200 mila euro l’anno e 90 delle quali – “povere” – guadagnano soltanto 10 mila euro l’anno. Il reddito complessivo di questa economia è pari allora a 2 milioni e 900 mila euro: 2 milioni nelle mani dei dieci ricchi, 900 mila euro nelle mani dei 90 poveri. E’ del tutto evidente che l’economia produrrà prevalentemente ciò che i 10 ricchi desiderano consumare, dal momento che disponendo di un potere d’acquisto complessivamente superiore al doppio di quello dei poveri, saranno in grado di orientare le scelte produttive delle imprese e il tipo di utilizzo dei fattori della produzione (capitale e lavoro).

Per questa e per nessun altra ragione il mondo è pieno di sfarzo e di bisogni essenziali insoddisfatti: perché la distribuzione del reddito è quella che è, i gusti dei ricchi sono quelli che sono e il mercato, come diceva Luigi Einaudi, soddisfa domande e non bisogni.
Sorgono allora due domande che, come vedremo, sono strettamente collegate fra di loro.

La “qualità ambientale” (o se si proferisce la “sostenibilità dello sviluppo”) può entrare, e in che misura, nel paniere di beni che i ricchi desiderano consumare? La seconda domanda: se il mercato non provvede (non può provvedere!) a soddisfare i bisogni di chi è troppo povero per trasformarli in domande, a chi può essere attribuito questo compito? Le risposte ad entrambi i quesiti chiamano in causa il ruolo irrinunciabile delle politiche pubbliche, dello Stato in tutte le sue articolazioni territoriali.

Infatti, quand’anche ciascuno possa desiderare qualità ambientale, nessuno è tuttavia disposto, privatamente, a pagare i prezzi che sarebbe necessario pagare per realizzare quel desiderio (utilizzare meno l’automobile, moderare gli stili di consumo, ecc.). Ciò accade perché nell’agire economico di consumatori generalmente non siamo disposti a compiere sacrifici i cui frutti siano goduti anche da altri (non siamo disposti, si dice nel gergo dell’economia, ad internalizzare le esternalità positive che simili sacrifici potrebbero produrre).

Questa è la ragione per cui i beni in cui si sostanzia la “qualità ambientale” – innanzitutto consumi più morigerati o comunque più sostenibili (è diverso l’impatto ambientale della decisione di, diciamo, 100 persone di spendere 30 euro per farsi un giro sulla moto acquatica piuttosto che per andare a teatro) – non possono essere prodotti nella misura socialmente ottimale dal puro funzionamento del mercato. Allo stesso modo, e soprattutto negli ultimi 15-20 anni durante i quali con rarissime eccezioni la distribuzione del reddito è peggiorata quasi ovunque (sono oramai innumerevoli gli studi che spiegano come questo peggioramento sia in larga parte imputabile ai cambiamenti in corso in Cina, India, Vietnam, Russia, Stati Uniti.., insomma la gran parte del mondo che conta) non ci possiamo aspettare che sia il mercato a produrre quei beni che servirebbero a soddisfare i bisogni dei segmenti più poveri della distribuzione del reddito.

Dunque: è il funzionamento stesso del mercato, la sua logica, a dettare il duplice compito dello Stato. Stimolare, direttamente e indirettamente, la produzione di qualità ambientale così come la produzione di beni desiderati, ma non domandati, dagli strati sociali più deboli. Se a ciò aggiungiamo che i disoccupati o i male-occupati sono quasi sempre gli stessi che non riescono a domandare ciò che vorrebbero, ecco che si delinea precisamente il compito di politica economica dello Stato.

Utilizzare le risorse disoccupate o male-occupate per produrre beni con forti caratteristiche di beni pubblico (tra cui la qualità ambientale) e beni atti a soddisfare le domande inespresse sul mercato dalle fasce più deboli della popolazione. Una questione occupazionale, una questione ambientale ed una questione sociale: l’una intimamente connessa con l’altra, a definire un percorso di sviluppo con dignità per tutti.

Ma se questo è, precisamente definito, il compito che in un’economia moderna e globalizzata si deve attribuire all’operatore pubblico, come lo si può svolgere concretamente? Innanzitutto: lo Stato, che secondo la vulgata macroeconomica dominante deve sempre e comunque ridurre la spesa pubblica e il peso della fiscalità, dispone delle risorse necessarie a realizzare quel compito? E, ammesso che ne disponga, come si può concretamente organizzare un intervento così articolato?

* Marco Missaglia (nella foto)
è professore associato di Economia dello sviluppo alla facoltà di Scienze Politiche dell´Università di Pavia. Si occupa della cooperazione allo sviluppo interuniversitaria fra Pavia, l´Università di Betlemme (Palestina) e quella di Cartagena (Colombia).

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