[28/03/2007] Comunicati

L´ambientalismo maturo e il negazionismo nichilista

LIVORNO. L’eco mediatica del global warming e delle sue conseguenze, anche economiche, ha imposto finalmente quella riflessione sulla coppia sviluppo/progresso che gli ambientalisti vanno facendo da anni. La questione è oramai matura a tutti i livelli. Sia che si tratti del mondo della scienza, sia che si tratti del G8, che delle multinazionali; del rilancio delle politiche economiche europee che nazionali. La questione della sostenibilità dello sviluppo (intesa esattamente come riproducibilità delle risorse che vengono sfruttate) è oramai a tutto tondo diventata questione economica. C’è ancora qualche negazionista isolato, ma la discussione generale si è spostata dal se (c’è pericolo) al come (affrontarlo). Su questo punto si può dire che le battaglie storiche dell’ambientalismo hanno “sfondato” ed hanno prodotto un punto di analisi egemonico.

Ora il problema è rappresentato appunto dal come intervenire e dai tempi in cui si può intervenire. Ed è proprio il come e i tempi in cui si interviene che chiamano in causa quella riconversione ecologica dell’economia che gli ambientalisti vanno predicando (inascoltati) almeno dagli anni settanta. E’ la coppia sviluppo/progresso che va ripensata e riformata. Ma è, anche, questa riforma che impone all’ambientalismo di leggere la nuova fase come un altro e più avanzato terreno di lotta, dove la capacità di proposta cogente (non solo sotto il profilo oggettivo ma anche sotto quello soggettivo) diventa indispensabile se si vuole incidere sulla direzione e sui tempi del cambiamento necessario.

Si può dire sbrigativamente così: l’ambientalismo maturo deve passare dalla salvaguardia (che rimane necessarie nelle situazioni che lo richiedono) alla trasformazione sostenibile.
La situazione che si è determinata insomma, impone l’assunzione del concetto di trasformazione, sia per le molteplici situazioni che vanno modificate con strategie di rientro dalle pressioni verificate come insostenibili, sia perché la mitigazione degli impatti a valle di un modello che produce guasti (il cosiddetto ambientalismo antropologico) è oramai spiazzato culturalmente, politicamente ed economicamente.

Se ciò è vero, allora (come a noi pare), non è banale osservare che il contesto attuale offre due invarianti all’interno delle quali poter operare: la democrazia e il mercato.
Sappiamo bene che tutti e due questi concetti sono sottoponibili a critica (salutare quanto insufficiente) e non c’è spazio qui per farlo. Sta di fatto che, hic et nunc, la coppia democrazia-mercato è il terreno sul quale l’ambientalismo maturo deve fare i conti. Operare come se questa coppia potesse essere ignorata (come quando si pensa di fare a meno delle istituzioni e/o dell’impresa) non solo relegherebbe l’ambientalismo al ruolo di negazionismo opposto e speculare a quello di chi chiede di tirar dritto sulla crescita che risolverebbe tutto, bensì lo condannerebbe alla regressione; anche culturale.

Non solo. Come è evidente, infatti, dalle mille vertenze locali, se sulla salvaguardia è possibile un trasversalismo destra-sinistra, è proprio sul terreno della proposta e del progetto alternativi che si definisce l’ambientalismo maturo in discrimine a quello antropologico alla Matteoli, ma anche al suo speculare fondamentalismo.

Che quello del progetto e della proposta (alternativi perché rispondenti al criterio direttore della sostenibilità) sia un terreno impervio e pieno d’insidie è cosa certa e acclarata. Specie in una fase in cui la politica (per sua colpa) è sotto schiaffo (ma contemporaneamente e contraddittoriamente gli viene chiesto di sostituirsi al mercato), la scienza non è più indiscutibile (in nessuno dei suoi aspetti), la tecnica (i tecnici, come dimostra anche l’episodio di Campi) non sono quelle figure neutrali ed oggettive su cui tanto la giugulatoria qualunquista si è sbizzarrita da un decennio a questa parte.

E tuttavia “i gatti non sono mai tutti bigi” in nessuna situazione ma lo sviluppo può essere insostenibile in tutti i settori: non solo, come per troppo tempo si è pensato, in quello industriale. Anzi, proprio in questa precisa fase storica, la necessaria innovazione tecnologica (dalla tecnologia per i controlli a quella per la mitigazione degli impatti; da quella per la qualità dei prodotti, alla tecnologia per il risparmio di energia e di materia) indica che senza una nuova industria non c’è né sostenibilità né competitività.. La parola chiave che ha animato i governi locali per circa un ventennio, la diversificazione, ha solo spostato l’insostenibilità dall’industria al territorio, dalla logospecificità al consumo di territorio e alla diffusione degli impatti.

E per smarcarsi dal tema della trasformazione sostenibile non è sufficiente neanche la parola qualità. Infatti, come diceva un grande del ‘900, “ se la quantità senza la qualità è possibile, non è possibile il contrario”! Ergo, anche con la qualità è vigente il limite della quantità. Proprio in virtù della vigenza e della cogenza della seconda legge della termodinamica e del suo derivato concetto di entropia.

Il criterio direttore della sostenibilità non è dunque affermabile né con la sola salvaguardia, né con la sola qualità: impone progetti, conflitti e confronti con i poteri esattamente così come essi si presentano e non come li vorremmo. O l’ambientalismo coglie questo salto di fase che impone, anche, un salto di qualità nella sua capacità di elaborazione autonoma, oppure sarà costretto a giocare un ruolo di ascari delle diverse e schizofreniche spinte tanto politiche quanto sociali ed economiche.

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