[14/03/2007] Urbanistica

Falqui: Il mattone ha sostituito l’industria dove non si è capito nulla della globalizzazione

LIVORNO. L’ambientalismo ha combattuto in passato con un modo di fare industria impattante e obsoleto. Ma dopo quella fase, si è diffusa l’idea e la cultura che industria fosse, a prescindere da tutto, sinonimo di uno sviluppo sbagliato per il territorio.
Si può intravedere un rapporto tra la ventata antindustrialista, - come modello sorpassato tout court o che almeno così è stato colto, anche se negli intenti vi era quello di trasformare l’industria e non di chiudere il capitolo - e la colata di cemento che ha investito la Toscana? Ed esiste la possibilità di ripristinare un equilibrio tra industria, turismo e sostenibilità?

Abbiamo rivolto queste domande a Enrico Falqui, storico ambientalista toscano.
«Il discorso è abbastanza complesso, e l’avvento del mattone al posto dell’industria è un elemento importante della questione. La Toscana è arrivata impreparata prima al grande momento di svolta, cioè l’89 con la caduta del muro di Berlino, e poi alla globalizzazione che si è sviluppata anche in processi di finanziarizzazione dell’economia e che ha portato ad una centralità delle città e dei territori per il fatto che anch’essi sono diventati merci di competizione sul mercato. Nel senso che investire su un territorio che produce ricchezza e know how significa garantirsi un marchio, che si associa ad un determinato prodotto e quindi è un investimento. La Toscana non ha capito nulla della globalizzazione e non ha capito che finita l’era dei blocchi, i processi di industrializzazione sarebbero andati a compimento. Per questo ha subito un processo di deindustrializzazione senza che questo venisse sostituito da nuovi capitali e nuovi investimenti in altri processi produttivi e in innovazione tecnologica, tali da creare un nuovo modello di sviluppo.
La piccola e piccolissima impresa ha retto più a lungo perché puntava su merci di altro valore e di altri costi finali che potevano avere un ruolo nel mercato nazionale e internazionale finchè la globalizzazione ha rotto gli argini e il muro di Berlino è caduto anche nei confronti del resto del mondo».

E quindi la sostituzione c’è stata con il mattone?
«Sono venute al pettine tutte le tesi sbagliate sia degli iperindustrialisti, che avrebbero voluto sostituire la grande impresa con altri monopoli pubblici e privati, ma anche l’analisi di quella sinistra radicale, che ha coinvolto in parte anche settori del movimento ambientalista, sulla Toscana felix. Di fatto conservatori. Perché l’idea di questi neofiti dell’ambientalismo è la sostanziale conservazione di una Toscana che non può esistere più perché la globalizzazione ha spazzato via questa possibilità. La Toscana è un esempio di autarchia in cui il governo pubblico ha avuto un ruolo centrale ma che adesso non funziona più. Il mattone è intervenuto come sostitutivo, come bricolage si potrebbe dire, per cercare nemmeno di compensare reddito e produzione di lavoro ma semplicemente come palliativo di una governance pubblica del territorio che cerca di autoconservarsi fino a che è possibile. I comuni vendono il territorio perché così detengono un potere, nei confronti dei privati che è l’ultimo che possiedono».

E’ rimediabile?
«L’ambientalismo scientifico aveva visto giusto. Erano gli anni 80 quando parlava della necessità di riconvertire l’industria. Non aver voluto riconvertire il polo siderurgico di Piombino ha prezzi salatissimi e la stessa cosa vale per la costa livornese o per la piccola impresa dell’area empolese o pratese. Un prezzo che viene pagato oggi dai territori. Bisogna rispondere allo stesso livello della globalizzazione che chiama in causa lo stato e l’Europa. Le politiche che possono immettere una innovazione possibile e sostenibile dell’economia toscana stanno in una sussidiarietà molto stretta tra un livello toscano, quello dello stato e dell’Europa. Se si sviluppasse un edilizia basata sul solare ad esempio, questa sarebbe una grande innovazione. Porrebbe le condizioni perché si creasse un indotto delle energie rinnovabili che potrebbe andare a sostituire quei poli produttivi che sono necessari per sostituire le aree industriali dismesse. Avevamo ragione ma non ci hanno dato ascolto e se non ci daranno ascolto nemmeno ora si rischia che ci diano ragione tra dieci anni, quando però ormai la Toscana sarà interamente saturata dal cemento».

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