[10/01/2007] Aria

Cambiamenti climatici, a rischio anche le aree umide

LIVORNO. Nel rapporto presentato dalla Ue sui cambiamenti climatici previsti nella seconda metà del secolo, si parla di rischio desertificazione per l’Italia, e fin qui niente di nuovo. Ma la novità rispetto ai precedenti studi su questo settore riguarda il fatto che oltre alle cinque regioni già colpite dall´aridità e dal degrado dei suoli, cioè Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna, che sono le principali deputate tra le vittime preferenziali dell´incremento dell´effetto serra, si scopre che gli squilibri più gravi e la maggiore sofferenza degli ecosistemi si registreranno in molte zone umide.

Ovvero aree ricche di paludi e acquitrini, dove tra un intricato sistema di canneti e di vegetazione arborea trovano l’ambiente adatto a nidificare molte specie di uccelli. In Italia ne rimangono una cinquantina, concentrate nelle regioni settentrionali e centrali, superstiti delle attività di bonifica, che si sono concluse agli inizi del secolo scorso. E quello che non hanno potuto le bonifiche, potrà esser fatto dai cambiamenti climatici: proprio queste oasi sembrano infatti essere non gli ultimi baluardi, ma i primi avamposti a cedere all’innalzamento delle temperature. Quando saranno aumentate di 2-3 gradi, le precipitazioni si ridurranno del 25% e il mare invaderà le coste, cancellando almeno una metà delle zone umide italiane.

La notizia viene dal professor Valentini, direttore del dipartimento di Scienze forestali all´università della Tuscia e presidente del comitato cambiamenti climatici del Cn. Impegnato in una ricerca sulla risposta delle zone umide italiane ai cambiamenti climatici in atto, condotta in collaborazione con Cnr e Wwf, il professor Valentini annnuncia che già una mezza dozzina di zone umide nostrane, sia al Nord sia al Centro- Sud, mostrano processi precoci di desertificazione. Le prime aree ad accusare segni di sofferenza anche per effetto del clima sono il bosco della Mesola nel delta del Po (Emilia Romagna), il Lago di Massaciuccoli e la pineta di Alberese (Toscana), la tenuta presidenziale di Castelporziano e il Parco nazionale del Circeo (Lazio), il bosco di Policoro (Basilicata), le zone umide della Sardegna occidentale.

L´ennesimo allarme ambientale viene dal rilevamento di una serie di fenomeni che Valentini così riassume: «Le precipitazioni si vanno riducendo, le temperature medie continuano ad aumentare e con esse l´evaporazione del terreno. Insomma, la preziosa risorsa di acqua di questi bacini si va riducendo. Ma quando piove, spesso le precipitazioni sono concentrate, provocando inondazioni e asportazione dello strato superficiale del terreno più ricco di nutrienti». A questo si deve aggiungere il problema del cuneo salino, già fortemente presente in gran parte delle nostre coste, che l’innalzamento dei livelli del mare renderà ancora più evidente. Ovvero un processo di infiltrazioni di acque salmastre nei terreni, fino ad alcuni chilometri dalla costa. «Lo sfruttamento delle acque dolci sotterranee per usi civili e agricoli ha superato ogni limite di sostenibilità — accusa Valentini —. Così le falde si abbassano e si riduce anche il patrimonio di acque profonde». «I rimedi ci sono, purché non si perda altro tempo — esorta lo studioso —. La riduzione delle emissioni di gas serra da sola non basta. Valutati gli impatti caso per caso, bisogna ridurre lo sfruttamento delle acque da parte dell´uomo e riforestare con specie più resistenti alle più alte temperature. Servono linee guida per il recupero del nostro irrinunciabile patrimonio di zone umide».

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