[04/01/2007] Comunicati

Quanto è vecchia la modernità?

LIVORNO. L’innovazione non conosce un solo metodo, e viaggia per molte strade, asserisce Fogal, il vicepresidente della Honeywell e responsabile del settore tecnologia e ricerca della multinazionale americana in una intervista su Nova (inserto del sole24ore) Ma per arrivare a nuovi prodotti d’avanguardia, sostiene ancora Fogal, bisogna unire tecnologia a mercato. La conoscenza del mercato e le richieste che arrivano dai consumatori sono dunque componenti necessarie e indispensabili per produrre buona innovazione. Peccato che nel pensiero di chi deve fare innovazione e produrre nuove tecnologie si prendono sempre (o quasi) a riferimento la società già opulenta che richiede continue novità per saziare i propri istinti al consumo e quasi mai processi tesi a migliorare in senso generale il benessere sociale e la sostenibilità ambientale, intesi nella loro complessità.

L’innovazione non è quasi mai, nei settori economici, messa in relazione con la sostenibilità, se non nel senso di produrre tecnologie in grado di riparare (o nell’illusione di poterlo fare) ai danni prodotti dalle attività umane per portare avanti l’inevitabile e ineludibile progresso.

Mai una volta (o comunque raramente) che l’innovazione venga invece utilizzata per cercare di indirizzarlo questo progresso, verso comportamenti individuali e collettivi volti alla sostenibilità e quindi alla tutela dell’ambiente e al raggiungimento del benessere sociale.

Del resto è opinione abbastanza diffusa che parlare di sostenibilità significhi giocoforza essere e portare avanti comportamenti conservatori. In una visione arcaica e ormai desueta di quello che fu l’ambientalismo e che ormai non è più rappresentabile con queste categorie di conservazione e immobilismo.

Del resto “Ambientalismo” è un termine usato soprattutto in Italia (paese prodigo più di variazioni linguistiche che di cambiamenti sostanziali) per designare culture e movimenti orientati alla salvaguardia degli equilibri ecologici a livello locale e a scala planetaria. In altri paesi occidentali ( meno prodighi di variazioni linguistiche rispetto al nostro, ma spesso più inclini a cambiamenti sostanziali) per individuare lo stesso fenomeno, usano termini ricavati direttamente dalla parola ecologia.

Il termine ha la stessa radice (oikos, cioè casa, dimora) di economia e potrebbe o dovrebbe designare lo stesso oggetto ma ha invece assunto (da sempre) connotazioni assai distanti da essa. Sarà perché invece il senso che spesso si dà alla parola economia è quello di mercato e quindi in termini di obiettivi, prescindente dall’ecologia; per la disinvoltura con cui industria e governi di tutto il mondo, in nome del mercato e della crescita, marciano a braccetto verso l´aumento del Pil. A prescindere appunto.

Lo stesso vale quando si parla di modernità, che non viene mai associata al concetto di sostenibilità, perché si dà all’idea di sostenibilità un valore di conservazione contrapposto alla modernità, intesa come trasformazione lineare e progressiva, che si lascia alle spalle tutto ciò che è stato prima.

Ma è proprio tale idea della modernità che appare oggi assai obsoleta a confronto della situazione del mondo.

Come inadeguati appaiono gli schemi in cui vengono collocate le varie riforme che le forze politiche dei due schieramenti propongono allo scopo di modernizzare il Paese. Da cui l’associazione automatica tra modernità e liberalizzazioni e l’automatica deduzione che liberalizzazione significa giocoforza privatizzazione. E automaticamente viene etichettato di corporativismo (e quindi di conservatorismo) chi si oppone o vorrebbe declinare i processi di liberalizzazione, che sono invocati per avvantaggiare i consumatori, grazie alla diminuzione dei prezzi provocata da una maggiore concorrenza, ma che non automaticamente raggiungono l’obiettivo.

La società odierna è quindi suddivisa come non mai in schemi ( alla faccia del tramonto delle ideologie) e tende ad utilizzare lo schematismo per riprodurre categorie politiche e sociali, che tendono però a restringere sempre più l’orizzonte verso interessi di settore a scapito di una tendenza alla distruzione accelerata di rapporti tradizionali, della scomparsa di tratti di cultura, dell´erosione di comunità identitarie.

Riproducendo una concezione rozzamente individualistica della società, in cui si affrontano e lottano fra di loro formazioni sociali contapposte, ma paradossalmente sempre più portatrici di interessi individuali piuttosto che collettivi. O che rischiano di fare il gioco di chi vuole che, ad esempio per quanto riguarda le politiche ambientali, queste siano da relegarsi alla programmazione e alla gestione degli interventi di "fine-ciclo", per ripulire l´ambiente o mitigare i danni delle politiche vere, quelle che fanno crescere l’economia e il pil e quindi portano benessere e modernità nel paese. Con nessuna programmazione invece per intervenire "a monte"; cioè là dove quelle politiche vengono concepite, programmate, se non addirittura soltanto legittimate in seguito ai “disciplinari” dettati dal mercato. Con la conseguenza, ovvia e corrispondente al vero, che coloro che vivono la sostenibilità sotto l´unica dimensione della tutela dell´ambiente, si ritrovano a promuovere sempre e solo pratiche di negazione: no all’inceneritore, no alla Tav, no alla variante di valico, no al rigassificatore e così via.

L´ecologia, non è e non deve essere questo. E’, e non può che essere, una proposta organica, a tutto campo, flessibile nel tempo e articolata a livello locale, di riconversione dell´economia alla sostenibilità (ambientale e sociale) del sistema produttivo e degli stili di vita che lo alimentano e lo riproducono. Non certo una politica di conservazione, non certo una politica contro la modernità o l’innovazione, senza dubbio non una politica dei No a prescindere, in quanto negazione sia di innovazione tecnologica che di modernità. E come tale facile bersaglio di chi ragiona nell’ottica di non disturbare il manovratore. Ma nemmeno una politica esclusivamente prescrittiva, orientata solo a dare limiti e a lasciare che sia il mercato (grazie alla tecnologia che è capace di produrre) a "prendersi cura" e a guarire i danni prodotti sull’ambiente. E´ ora di ridistribuire le carte, ridare a ciascuno il proprio ruolo, ad ogni parola il suo significato. E di mostrare che l´ambientalismo è un programma organico di riconversione produttiva e sociale, che non è in antitesi né con l’innovazione né con la modernità e che non scambia i mezzi ( stato-mercato, liberalizzazioni-privatizazioni) con i fini: efficienza e sostenibilità. E, su questo, è arrivato anche il momento di cominciare a evidenziare che spesso chi è dalla parte del “no” sono le multinazionali, le associazioni imprenditoriali, gli istituti per il commercio, la Banca Mondiale, Il Fondo Monetario Internazionale, oltre ai quei governi che assecondano i loro esclusivi interessi pensando che così, tanto, tutti ci guadagnano. A scapito della sostenibilità.

Torna all'archivio