[25/10/2006] Aria

Living Planet Report: Tutte fanfaluche! O no?

TORINO. Riguardo alle previsioni emerse dal rapporto Living planet del Wwf (vedi Greenreport del 24 ottobre) sono apparse alcune critiche sia sull’esattezza delle previsioni, sia sul valore degli indicatori usati. In particolare Carlo Stagnaro del dipartimento di Ecologia di mercato dell’Istituto Bruno Leoni, dice che «le previsioni sono ridicole perché poggiano su due ipotesi di fondo non vere» e cioè che lo stock di risorse esistenti sulla Terra sia dato, e che l’uomo non sarebbe in grado di inventare nuove risorse, mentre secondo Stagnaro «la storia ci dice esattamente il contrario: nessuna risorsa si è mai esaurita nell´avventura umana e nessuna risorsa mai si esaurirà, purché il mercato sia lasciato libero di lavorare trasmettendo informazioni relative alla scarsità relativa delle risorse».

Però non emerge il fatto che seppur fosse vero che le risorse non sono limitate, comunque si dovrebbe fare i conti con il problema del regime di instabilità indotto dall’aumento delle emissioni di Co2 che porrebbe il pianeta in condizioni di estrema crisi, addirittura prima della metà del secolo.

Abbiamo chiesto allora a Stagnaro se questo lo vede come un problema reale oppure no.

Pur ammettendo che le risorse siano date, viene da chiedersi se ci sarà il tempo di esaurirle. Infatti già nel 2002 l’accademia delle scienze degli Usa, avvertiva che non c’è bisogno di aspettare il 2050 per avere gli effetti climatici temuti, perché la variazione drastica di un parametro, in questo caso la Co2, in un sistema non lineare può far passare bruscamente dalla stabilità all’instabilità. E anche il direttore dell’Iea, Claude Mindell, avverte che proseguire con gli attuali livelli di incremento delle emissioni di anidride per la mancanza di politiche energetiche adeguate non è più ammissibile. (vedi Greenreport del 22 ottobre).

Lei afferma il contrario?
«Assolutamente si. Sono due problemi radicalmente diversi. Lasciando da parte le insicurezze scientifiche, vediamo lo scenario con cui dobbiamo fare i conti: c’è un mondo sviluppato in cui abbiamo assistito nell’arco degli ultimi decenni ad un grande miglioramento dell’efficienza sia della produzione sia dell’utilizzo; per esempio nel campo delle auto adesso abbiamo mezzi che consumano meno e inquinano meno. C’è quindi un trend positivo dal lato degli impatti sull’ambiente che va valorizzato e incrementato.
Il mondo in via di sviluppo sta conoscendo una crescita rapida che ha vantaggi da tanti punti di vista, è abbassato per esempio il livello di povertà. Questo dato è stato molto forte in aree asiatiche, mentre in Africa invece c’è ancora molto da fare. Se si mette questi dati sul piatto della bilancia credo sia ragionevole pensare che anche in Africa si debba raggiungere un maggiore sviluppo e non si debba più morire di fame».

Nessuno mette in dubbio che debbano migliorare le condizioni di due terzi della popolazione del pianeta, il problema è come questo sviluppo debba avvenire.
«Non tutti lo danno per scontato. Sei miliardi di persone sul pianeta, secondo alcuni ecologisti sono già troppi, questa è una posizione che mi sembra criticabile.
Lo sviluppo della Cina, dell’India adesso e poi dell’Africa porterà ad un aumento della lunghezza della vita e quindi anche della popolazione.
Noi ci troviamo di fronte a un mondo sviluppato che ha un tasso già relativamente alto di efficienza e di fronte a paesi in via di sviluppo in cui è bassa l’efficienza e alto l’inquinamento procapite. Noi siamo più ricchi e posiamo usare auto meno inquinanti. Quindi maggior ricchezza significa migliore la possibilità di efficienza.
Quindi l’attenzione va spostata là per cercare di individuare le condizioni per cui anche questi paesi possano accelerare le tappe del loro sviluppo.
Ci abbiamo messo cent’anni a passare dal carbone al gas, che è meno inquinante, dobbiamo dare loro la possibilità di farlo prima».

Ma proprio la Cina che ha questo enorme trend di sviluppo è uno dei maggiori produttori di carbone e quindi darà un grande contributo alle emissioni di Co2
«Ma si possono pensare tecnologie per un carbone più pulito».

Sì, ma in termini di emissione di Co2 il problema rimane. Se ne sta accorgendo anche l’Australia.
«Bisognerebbe fare più battaglie a favore della riforestazione, invece mi sembra che per la parte ambientalista questo tema non è abbastanza presente. Ci auterebbe ad avere benefici a più lungo termine, e a catturare la Co2, come altri interventi sempre in termini di carbon sink, che la tecnologia potrebbe sviluppare».

Insomma secondo lei la tecnologia è la chiave per risolvere il problema?
«La tecnologia e la ricchezza che ci dà modo di poter inquinare di meno facendo le stesse cose, ovvero maggiore efficienza. Le faccio un esempio: il mio computer consuma meno di uno di 10 anni fa. Il grosso dell’inquinamento dei prossimi 50 anni arriverà dai paesi in via di sviluppo, e quello dei paesi sviluppati andrà a diminuire almeno in termini relativi. Se tutto il mondo ha emissioni di Co2 pari a 100, oggi il mondo sviluppato dà un contributo pari a 50. Tra 50 anni questa quota sarà ridotta a 25. Quindi il primo target sono i paesi in via di sviluppo. E tra l’altro fortunatamente agire nei paesi in via di sviluppo è più facile: risparmiare dove si spreca poco è più difficile che farlo dove si spreca tanto».

Allora gli americani che sono notoriamente spreconi in tema di energia dovrebbero poter fare tanto e invece non sembra che si muovano.
«Questo non è esatto, perché anche gli americani si stanno muovendo verso stili di vita più contenuti. Infatti il trend delle emissioni negli Usa, intesi come intensità carbonica (che significa quanta Co2 viene emessa per generare 1 dollaro di pil) è diminuita più dell’Europa. Tra il 1997 e il 2003 l’intensità carbonica nell’Europa a 15 è diminuita del 7,6%, mentre negli Usa del 12.2%».

Insomma secondo lei non c’è alcuna urgenza di intervenire. Eppure al G8 di San Pietroburgo, non dico le associazioni ambientaliste, ma le 12 accademie scientifiche più accreditate del mondo hanno chiesto ai governi di fare in fretta.
«Ammesso e non concesso che ci sia l’urgenza, non nego che ci sia un surriscaldamento globale che è in atto da ventimila anni, bisognerebbe capire quanto l’uomo con la sua attività ha impattato su un evento naturale.
Il surriscaldamento potrà anche avere delle conseguenze negative per l’uomo e per l’ambiente, bisogna allora individuare quali sono le strategie efficaci per rispondere a questa sfida. Sicuramente non il protocollo di Kyoto, simbolicamente importante ma che riguarda paesi in cui il contenimento delle emissioni è già in atto e non coinvolge né la Cina né l’India. La strategia migliore per avere minor impatto dell’umanità sull’ambiente è quello di difendersi dagli eventi ambientali, fare in modo cioè che le vittime siano più contenute. E si abbiano tragedie di dimensioni minori. Questo significa dare ad un numero di paesi più ampio possibile l’opportunità di adottare misure difensive e preventive e questo costa e il modo migliore per averla è scommettere su un quadro di regole che permettano a questi paesi di arricchirsi e quindi di mettere in atto quelle strategie».

Quindi il suggerimento che ha dato Stiglitz all’Ue di denunciare gli usa in tutte le sedi internazionali - dal Wto e alle Corti di giustizia internazionale - per concorrenza sleale, non le sembra condivisibile?
«Le grandi intelligenze quando dicono sciocchezze dicono grandi sciocchezze. Se io decido senza che nessuno mi costringa di adottare uno standard produttivo per ragioni fondate perché ritengo che sia utile alla salvezza del mondo questa è una mia scelta e questo è quanto è avvenuto con il protocollo di Kyoto. Dov’è l’esempio di virtù dell’Europa? Secondo gli Usa, il protocollo di Kyoto era uno strumento sbagliato tanto che anche Clinton e Al gore si rifiutarono di presentare il documento per la ratifica al congresso».

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