[20/10/2006] Consumo

Quanto sono bio i biofarmaci?

Il futuro è nel biotech anche per quanto riguarda l’industria farmaceutica. Nonostante la debole spinta nei confronti dell´innovazione da parte governativa e il modesto interesse da parte dell’economia nei confronti delle biotecnologie, sono ben centododici le imprese, in prevalenza di piccole e medie dimensioni, che lavorano nel settore del biofarmaco, con ben trenta prodotti nelle fasi I, II, III di sviluppo clinico e un fatturato che nel 2004 è stato superiore a 2,6 miliardi di euro, a fronte di un utile operativo lordo di circa 163 milioni e di un numero di addetti che sfiora le ottomila unità. Questi i numeri del settore biofarmaceutico in Italia che emergono da un´indagine condotta da Blossom Associati per Assobiotech.

Lo sviluppo del settore nel nostro Paese è avvenuto in modo autonomo, senza incentivi statali e in un vuoto legislativo assoluto. In Lombardia, Lazio, Piemonte e Toscana ci sono quattro dei più importanti distretti biotech europei. E alcuni dei farmaci più innovativi presenti sul mercato sono made in ltaly.
L’Italia sembra quindi essere ai primi posti in Europa in questo settore, ma in pochi sembrano essersene accorti.

Ma andiamo per gradi. Innanzitutto cos’è un biofarmaco? Lo abbiamo chiesto a Matteo Missaglia, dirigente della Helsinn, una multinazionale farmaceutica.
«Il biofarmaco è un preparato che ha origine da materie prime biologiche e non di sintesi chimica. Niente a che vedere s’intenda con la classica accezione di biologico in tema di prodotti alimentari. Ma si tratta di materie biologiche che vengono elaborate attraverso biotecnologie».

Niente a che vedere con il settore dell’omeopatia o delle fitoterapie?
«No, i biofarmaci vengono utilizzati con lo stesso approccio dei farmaci di sintesi nell’allopatia. Sono completamente diversi dai rimedi omeopatici».

Quindi per entrare nella farmacopea ufficiale devono sottostare agli stessi iter?
«Esattamente, gli iter che portano all’autorizzazione sono gli stessi degli altri farmaci e comprendono sperimentazioni cliniche ecc».

A leggere i dati della ricerca commissionata da Assobiotech, sembra vi sia una attenzione particolare nel settore della ricerca per questi biofarmaci. Le risulta?
«Sì c’è molta ricerca a livello mondiale che si sta rivolgendo a questi farmaci. Anche perché danno risultati su alcune patologie dove altri farmaci non hanno dato grandi esiti. Per esempio per molte patologie tumorali questi biofarmaci aprono molte nuove possibilità. Ma anche nei processi legati all’invecchiamento e patologie come l’Alzheimer».

Ma allora, viene da chiedersi, perché non investire principalmente su questo settore?
«Negli Usa si fa molta ricerca in tal senso. Ma gli investimenti che servono sono enormi, e richiedono strutture di ricerca e finanziarie che invece in Italia sono molto indietro. Rispetto ad altri paesi il volume degli investimenti nella ricerca è molto basso e questo è un settore in cui servono molti soldi e la possibilità di poter rischiare. Se poi la ricerca va a buon fine si può anche guadagnare molto, ma il rischio d’investimento comunque c’è».

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