[16/10/2006] Recensioni

La recensione, I nuovi consumatori, di Norman Myers e Jennifer Kent

Anche il più accanito sostenitore della crescita economica illimitata, a prescindere da qualsiasi considerazione sui derivati impatti e sul conseguente deterioramento ambientale, non si è mai spinto ad affermare che i livelli di produzione e di consumo delle economie occidentali possano essere, tal quali, trasferite al resto delle popolazioni mondiali.

Magari si è confidato nel combinato disposto mano invisibile (del mercato) – sviluppo tecnologico, come inerziale orientamento verso soluzioni mitigatrici e/o sostitutive delle pratiche attuali. Ma nessuno ha mai pensato che si possano trasferire i livelli di consumo di energia e di materia ( e di scarti conseguenti) degli Usa, al resto del mondo.

Come dice Gianfranco Bologna nella sua prefazione «è del tutto evidente che la sfida centrale per il presente e l’immediato futuro è comprendere come riuscire a vivere sulla terra in maniera equa e dignitosa per tutti con un numero di esseri umani che ha già superato i sei miliardi e che, entro questo secolo, potrà raggiungere i dieci miliardi; e come farlo senza distruggere irrimediabilmente i sistemi naturali da cui traiamo le risorse per vivere e senza oltrepassare le loro capacità di sopportare gli scarti e i rifiuti delle nostre attività produttive».

Se guardiamo alle dinamiche di deterioramento già in atto, potremmo aggiungere che, in questo sforzo, la variabile tempo non è indifferente.
Questo testo di Myers e Kent ci dice, infatti, che il modello dissipativo e impattante delle economie cosiddette avanzate, si è già allargato ad un nucleo di Paesi ( Asia in testa ) nei quali i “nuovi consumatori” non stanno solo ridisegnando l’architettura economica e sociale delle proprie comunità, ma anche la mappa politico-economica dell’ordine mondiale.

Cina, India, Corea del sud, Filippine, Indonesia, Malesia, Thailandia, Pakistan, Iran, Arabia Saudita, Sud Africa, Brasile, Argentina, Venezuela, Colombia, Messico, Turchia, Polonia, Ucraina e Russia sono i venti Paesi neoconsumatori. Cina e India da sole registrano i due quinti dei nuovi consumatori. L’Asia è presente nella classifica con circa 677 milioni di nuovi consumatori, cioè due terzi del totale mondiale.

Il nocciolo del ragionamento è questo: secondo molti economisti il valore dei prodotti e dei servizi dell’ambiente (acqua, suoli, risorse genetiche e clima) eguaglia quello di tutta la nostra attività economica e stiamo sovrasfruttando la base delle risorse naturali a un tasso che supera di un quinto quello della ricostituzione. Ergo, “i problemi ambientali sono inesorabilmente problemi economici e ci costano sempre più cari”. Proprio nel mentre un Paese come “gli Usa perdono ogni anno almeno 1000 miliardi di dollari (dei 10 della loro economia complessiva) in energia, metalli, legno, suoli, acqua e fibre sprecati, senza considerare i trasporti per farli circolare”.

La questione di come e quanto si consuma insomma, non è (solo) questione etica e di giustizia, bensì questione economica. Di politica economica. Di governance mondiale dell’economia che non può assolutamente essere risolta dalla sommatoria spuria della capacità competitiva di ogni singolo Paese.

“Abbiamo un bisogno impellente di ecotecnologie a favore dell’efficienza energetica, del riciclo, del controllo dell’inquinamento e della durata, per contrastare le dimensioni grottesche della produzione dei rifiuti che caratterizza le società industriali”. Lo slogan “rifiuti zero” è anche affascinante ma è gridato in un contesto dove “in media nei Paesi ricchi vengono consumate direttamente o indirettamente 100 tonnellate all’anno pro capite di materiali non rinnovabili, vale a dire 40 volte di più rispetto agli abitanti del mondo in via di sviluppo. Oltre il 90% delle risorse prelevate in natura va sprecato lungo il processo in cui i materiali si trasformano in cibo, macchine, veicoli, infrastrutture o simili. Negli Usa, un misero 1% del flusso dei materiali finisce in prodotti che sei mesi più tardi sono ancora in uso, il resto è già buttato”.

Come già a suo tempo ebbe modo di osservare il Wuppertal Institute, “la comunità globale deve necessariamente ridurre il proprio consumo di risorse naturali del 50% entro il 2050, per renderne disponibile una quantità sufficiente alla popolazione che cresce e che ha più esigenze”. E questo obiettivo non è neanche tematizzato dai governi dei Paesi occidentali.
In questa situazione, come riconoscono anche i due autori, “le ecotecnologie possono aiutarci a uscire dai colli di bottiglia ma……..queste, da sole, non ci faranno mai vincere la battaglia: dobbiamo frenare la domanda di prodotti”.
Come?

“Fare la differenza a livello personale” come indica un paragrafetto del capitolo finale, è certamente importante ( ognuno faccia come se dipendesse da se ….) ma, fra la potenza di fuoco ad indirizzo inerziale delle 75.000 multinazionali e gli sforzi personal-comportamentali di contrasto c’è un gap spaventoso colmabile solo superando la stucchevole giugulatoria sulla modernità ( e il suo epicentro rappresentato dalla individualizzazione della/e società) per ricostruire un agire collettivo che abbia un senso e un verso: quello della sostenibilità.

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