[11/09/2006] Urbanistica

L´urbanistica e la mancanza di una cultura dei limiti dello sviluppo

FIRENZE. La discussione che si è scatenata in seguito al caso Monticchiello non rischia di essere un po´ astratta? E soprattutto non manca in tutto questo il tema della contabilità ambientale, senza il quale ogni situazione diventa o un "ecomostro", o al contrario un intervento comunque sostenibile?

Ne abbiamo parlato con Fausto Ferruzza, duirettore di Legambiente Toscana.
«Il grande assente in questa ampia discussione è il senso della misura. In tutte le accezioni possibili. Mancando una vera cultura dei limiti dello sviluppo, tutto diventa giustificabile. Le amministrazioni locali si trovano spesso costrette tra spinte e controspinte di natura immobiliare ad operare in condizioni di oggettiva difficoltà. Tuttavia, se devo analizzare il tema nella sua generalità, vedo tre ordini di problemi».

Quali sono?
«Il primo è epistemologico. In base alla filosofia che informa i piani urbanistici di nuova generazione, la Regione Toscana ha ottenuto, prima con la legge 5/95 e poi con la legge 1/2005 di rendere autonomi ed equipollenti i tre percorsi di piano: regionale, provinciale e locale, annullando quel principio gerarchico (dal generale al più locale) che ha caratterizzato tutta una generazione di Prg del secondo dopoguerra».

Ma la Regione dice che così si è tutelata l´autonomia dei comuni, favorendo il principio virtuoso del "far da sé ma non da soli"...
«Certo, si parte da esigenze legittime anche comprensibili: partecipazione dal basso, autonomia, sviluppo locale, autogoverno, etc. Ma questo, alla fine, ha determinato un eccesso di delega al livello comunale, che troppe volte si è trovato ad autocertificare il proprio strumento urbanistico generale. Oggi la Legge 1 concepisce un nuovo istituto (la Conferenza paritetica interistituzionale) proprio per ovviare (come in una sorta di camera di conciliazione preventiva) a quell´altissima conflittualità tra uffici di piano che ha partorito negli anni i tanti ricorsi al Tar che conosciamo».

Ma l´esperienza fatta finora è tutta negativa?
«No, le leggi 5/95 e 1/2005 si possono "usare" anche bene, in maniera virtuosa. E vengo qui al secondo ordine di problemi. Se si rispettasse il principio dirimente per cui "nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riutilizzazione e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti. (...)" (comma 4 dell´art.3 della LR 1/05) molto probabilmente non avremmo più alcun motivo di aprire vertenze sul territorio toscano. E quindi qui il problema si sposta sulla qualità e sulla capacità degli uffici di piano dei singoli comuni. Che è, ovviamente, molto eterogenea. C´è il caso di Lastra a Signa, dove una buona amministrazione, coadiuvata da ottimi funzionari, ha avuto il coraggio di affidare il proprio Piano ad un urbanista di grande fama come Vezio De Lucia. Avendone come risultato uno strumento che governa il recupero degli insediamenti esistenti e la riqualificazione ambientale in modo davvero magistrale. E ci sono invece casi come quello (non isolato) di Campi Bisenzio, dove un territorio esposto ai fortissimi appetiti immobiliari della Città Metropolitana (Firenze-Prato-Pistoia) ha addirittura innescato un´indagine dedicata della magistratura...».

Perché queste differenze con un percorso che sembrerebbe uguale?
«Il problema è strutturale. Se un comune rimane da solo è difficile che resista alle pressioni di quelli che sono spesso dei veri e propri potentati economici. A questo va aggiunto che gli esangui bilanci comunali sono drogati da Ici e Concessioni edilizie, che rappresentano una parte molto cospicua delle entrate di un ente locale».

E allora salta la sostenibilità?
«E arrivo al terzo ordine di problemi. La sostenibilità, oggi, non è misurata, e i percorsi virtuosi di contabilità ambientale, quali quelli che avrebbero dovuto innescare le Agende 21 e anche le certificazioni Emas dei comuni, danno spesso l´impressione di essere usati come foglie di fico, per rendere sostenibili a posteriori decisioni già prese».

Eppure tutti parlano di sviluppo sostenibile...
«E´ un termine che io non uso più, è ormai svilito e svuotato dei suoi contenuti originari. Troppa acqua sotto i ponti è passata dalla consegna dei lavori della Commissione Bruntland (1987). O "si misura" davvero sul territorio la sostenibilità ambientale, con agende 21 vere e certificazioni reali, che non si riducano solo ad operazioni di mero marketing politico, oppure rischiamo di parlare di una cosa declamata a livello teorico ma non effettivamente praticata».

E allora cosa si deve fare?
«Dobbiamo suggerire limiti veri, numerici e credibili, all´impronta ecologica dei vari luoghi, rendendo così davvero "misurabile" la sostenibilità che pretendiamo dalle amministrazioni. Altrimenti corriamo il rischio di essere velleitari e il cattivo uso del territorio, in definitiva, aumenta».

Negli anni scorsi, riferendosi ai piani strutturali dell´Elba, si è parlato di "Elbopoli". Non le sembra che quella lezione sia stata dimenticata?
«All´Elba l´urbanistica si è trasformata spesso in narrazione giudiziaria. Per alcuni versi si tratta di un caso limite. Ma qualche assonanza con quanto sta accadendo anche altrove in Toscana, c´è. E allora tutto rischia di "elbizzarsi". Coi comuni che vanno ciascuno per conto proprio, senza coordinamento e senza freni inibitori. E´ un rischio che abbiamo il dovere di scongiurare con tutte le nostre forze, ambientalisti e amministratori possibilmente dalla stessa parte...».

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