[07/09/2006] Consumo

Marcello Cini: Ormai solo la paura può salvare il pianeta

LIVORNO. Dopo l’intervista fatta ieri a Gianfranco Bologna, sui temi scaturiti dal festival della scienza di Norwich, nel Regno Unito, anche a Marcello Cini, fisico, saggista, padre della cultura ambientalista, membro del comitato scientifico di Legambiente, abbiamo chiesto un commento su quali possano essere gli interventi per contrastare il surriscaldamento della terra e sulla corsa infinita alla crescita, da parte di governanti e grandi gruppi economici.

Rispetto a quanto emerge dai dati sul riscaldamento del pianeta è evidente che siamo già in ritardo nell´agire.
Ma davvero dobbiamo aspettare che avvengano delle catastrofi epocali per intervenire, o possiamo fare qualche cosa per prevenire questi scenari?
«Possiamo ancora fare qualcosa. È grave però che a livello dei governi e dei poteri economici ci sia pochissima intenzione di mettersi sulla strada per fare. Ma basterebbe cominciare dal mettere in atto politiche di forte risparmio energetico, che sono le più semplici e più rapide da fare. Poi certo anche il ricorso allo sfruttamento delle fonti rinnovabili è importante, ma chiaramente richiede più tempo, mentre il risparmio energetico si può fare subito a partire dal livello locale, e questo potrà poi avere un impatto positivo in maniera diffusa».

Da quanto dice Gianfranco Bologna, quelle poche iniziative che vengono messe in atto sembrano quasi una goccia nel mare, rispetto agli scenari futuri. Quali sono i cardini su cui puntare per innescare un vero cambiamento?
«Un vero cambiamento non può aversi tra l’oggi e il domani. Però a forza di gocce si riempie il vaso. Questa storia che i piccoli interventi sono solo gocce nell’oceano mi sembra un po’ una scusa per non agire. E’ evidente che bisogna investire somme ingenti per innestare politiche concrete, somme che sono invece ancora troppo impari rispetto a quanti soldi vengono buttati in armamenti e nei consumi. Questo certamente potrà avere ripercussioni o addirittura mettere in crisi certi settori dell’economia, ma ne stimolerà altri come ad esempio quelli legati al risparmio energetico. Mi viene in mente a questo proposito un bel libro scritto da Marco D’Eramo su Chicago. Chicago è una città in cui è sempre stata fiorente l’economia legata alla macellazione. In particolare, legata ad essa era fortissima l’economia del ghiaccio che veniva trasportato dal Canada a Chicago attraverso la ferrovia. Negli anni 80 l’economia legata al ghiaccio ha vissuto una profonda crisi perché si sono diffusi i frigoriferi. Ma non per questo Chicago è andata in bancarotta».

La ricerca sembra più orientata all´innovazione che spinge al consumo che a trovare risposte per fermare li cambiamenti in atto. Quale può essere la chiave perchè diventi invece motore di una economia sostenibile per il pianeta?
«Gli investimenti della ricerca essendo sempre più legati al privato e ai centri finanziari sono certamente più rivolti ai settori in cui c’è una prospettiva di profitto grande e rapida. Invece la ricerca sui cambiamenti climatici ma anche sui settori della conservazione, anch’essa assai importante se si pensa a quanto è forte la distruzione ambientale, riguarda il settore pubblico, che non ha un ritorno immediato.
Per i settori privati, ma spesso anche per gli organismi internazionali e per gli impegni governativi, le priorità sono lo sfruttamento sempre più intenso di fonti non rinnovabili, le guerre del petrolio, insomma gli interessi sono spesso altri.
La ricerca sull’idrogeno, per esempio, si potrebbe fare nei posti dove c’è tanto sole. Ma spesso si fa anche confusione in questo senso pensando che puntare sull’idrogeno sia fare ricerca sulle fonti rinnovabili: sarebbe come pensare che fatte le linee elettriche si è fatta la corrente! L’idrogeno non è una fonte rinnovabile, è un vettore, importante certo, ma non quanto il risparmio energetico. E per produrre idrogeno serve energia, quindi dove c’è tanto sole si può averne quanta se ne vuole».

I concetti di sostenibilità e di limite si può dire che siano circoscritti al solo dibattito culturale. Cosa si può fare per farli diventare temi centrali dell´agenda politica e economica a livello planetario?
«Ci vorrebbe uno shock collettivo, una vera catastrofe che però purtroppo si porterebbe dietro anche tante vittime. Una specie di 11 settembre, anche se di altro genere naturalmente, ma di pari livello emotivo sulle coscienze. In quel caso lo shock fu tale che ha portato a delle conseguenze, anche se non sono state proprio quelle che ci aspettavamo. Ma quello shock ha fatto sì che la sensazione del terrorismo diventasse una paura diffusa tra le persone e questo ha portato ad una reazione anche a livello politico. Ripeto non certo a quella aspettata, perché in questo caso ha innescato processi di guerra.
Sono purtroppo pessimista. Se si vuole colpire la fantasia e le paure, se si vogliono smuovere le coscienze e innescare cambiamenti dell’opinione pubblica a livello mondiale, deve esserci uno shock. Bisogna far arrivare ad una consapevolezza mondiale il problema dei disastri che ci fronteggiano, solo allora sarà colta l’attenzione degli alti livelli dirigenziali, che rispondono di fatto alla consapevolezza di massa.
Il processo quindi non può che essere down-up. E’ per questo che sostengo e ribadisco l’importanza degli interventi locali, dell’azione locale dell’informazione, del ruolo svolto dalle associazioni ambientaliste a livello locale: perché la sensazione dei pericoli si trasformi in paura e quindi in capacità di mutamento degli stili vita».

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