[31/07/2006] Recensioni

La recensione - Contro la comunicazione di Mario Perniola

In realtà il titolo è fuorviante. Si tratta di una feroce argomentazione del «prodotto» informazione così come viene propinato al pubblico.

Non a caso una delle tre storielle esemplari che aprono la prima parte del volume è incentrata sulla performance di un capo partito che fa una affermazione pubblica provocatoria e aggressiva nei confronti di un gruppo socio-professionale che suscitò in molti scandalo e indignazione. Dopo poche ore, continua la storiella (vera), il nostro politico ritornò sull’argomento ritrattando parzialmente la propria dichiarazione. Il giorno dopo sostenne che la frase incriminata era scherzosa e del tutto priva di intenzioni offensive. In serata affermò che essa conteneva una parte della verità. Il terzo giorno disse che era stato interpretato male. Nel pomeriggio aggiunse infine che si era fatto soltanto portavoce di una opinione molto diffusa, che però non condivideva. Tuttavia fu per tre giorni alla ribalta dei mass media.
Il carattere contraddittorio e pieno di smentite e di rettifiche dell’intera performance la facevano apparire politicamente insensata. Ma, e questo è ciò che non viene decodificato dal pubblico «introdotto» politicamente, non è sulla base della sensatezza politica che questo modo di fare viene considerato da chi lo usa, bensì sulla base, come dice l’autore «massmediatica». Questa è la bacchetta magica che sembra trasformare l’inconcludenza, la ritrattazione e la confusione da fattori di debolezza in prove di forza.

Da questo punto di vista basta ricordare l’ultima campagna elettorale e si capisce quanto questo esempio sia calzante non solo di quel fenomeno che va ben oltre, purtroppo, Berlusconi, cioè del berlusconismo.
Tuttavia il termine comunicazione viene usato in questo libro come sinonimo di informazione se è vero, come è vero, che «la comunicazione è possibile soltanto se si attua questo processo circolare di conoscenza reciproca e condivisa fra comunicante e destinatario che implica la mutua consapevolezza di una intenzionalità comune fra i soggetti che partecipano» (L.Anolli, 2006).
La comunicazione infatti ha due presupposti. La capacità di padroneggiare bene, compiutamente l’argomento (il cosa) che si vuole comunicare e la capacità di mettersi «al posto dell’altro/a», «nella testa dell’altro/a», in rapporto empatico con l’altro/a. Per dirla con una frase un po’ più difficile: senza empatia non c’è comunicazione. Senza questi due presupposti possono esserci «lancio» di informazioni, emissione di messaggi, pubblicità (rendere pubblico un messaggio) ma, nella migliore delle ipotesi, non si sa chi e come lo raccoglierà e, dunque, neanche se e come risponderà (P. Legrenzi, 2001).
Rimesse le cose, o meglio le parole, al loro posto, si può gustare dunque questa critica della comunicazione nell’era della comunicazione che mette alla berlina atteggiamenti, linguaggi e paradossi lessicali (ossimori) che «non possono essere sottoposti ad analisi razionale» come quelli di chi «si dice campione di una guerra infinita del bene contro il male». In questa accezione e in questo uso della comunicazione vi è la convinzione (francamente non sappiamo se è una illusione come dice l’autore) che «il pubblico, ricettore dei messaggi, diventi sempre più ignorante e incapace di spirito critico, che le acrobazie e le incongruenze della comunicazione mediatica siano recepite come manifestazioni della potenza e della fecondità creativa».

Chiunque “processi” informazione con scrupolo e rigore può verificare quasi quotidianamente come, la stessa persona, interpellata da due intervistatori diversi, può offrire sullo stesso argomento due versioni completamente opposte dello stesso fatto, quasi che l’assillo dell’intervistato non sia quello di offrire un proprio coerente (quanto parziale) punto di vista, bensì di compiacere, sul momento, chiunque lo interpelli. Ovvio che quando questa sindrome attanaglia l’informazione politica, questa sconfina nell’«infotainement» come dice l’autore.
Meno ovvia, anzi dubbia, anche se condivisibile, è l’affermazione che «una critica della comunicazione (pure se di questa accezione della comunicazione) fatta solo in nome di principi epistemologici (la logica) o etici (la coerenza) resta debole fintanto che non si capisce che anche la scienza e la morale sono valori simbolici retti da una economia alternativa rispetto a quella capitalistica. Il capitale culturale del ricercatore scientifico, del burocrate, del professionista, dell’insegnante segue gli stessi criteri che presiedono alla formazione del capitale estetico dell’artista: il loro statuto si fonda su un habitus disinteressato che sollecita un riconoscimento e una ricompensa proprio in virtù del fatto che prescinde dall’interesse economico».
Tutta le seconda parte del testo in questione propone il rifugio nell’estetica come antidoto alla comunicazione, come «terreno dell’effettuale e del positivo… che si sottrae nelle piccole come nelle grandi cose a quel pensiero unico che pretende di appiattire sotto il suo rullo compressore dell’economia ristretta e quantitativa tutti gli aspetti dell’esistenza». L’espressione voltagabbana, nell’era della comunicazione massmediatica perde senso perché non c’è più una gabbana ma soltanto un voltare e rivoltare incessante che volatilizza e dissolve la gabbana stessa: l’estetica, secondo l’autore, sta dalla parte della gabbana, cioè degli habitus, delle forme, dei rituali. E perciò può rappresentare un nuovo legante sociale che ricostruisce quel legame fra la serietà e l’effettualità, tra la coerenza e la riuscita.

In verità potremmo chiudere questo commento parafrasando un celebre dialogo di Diderot: a memoria di rosa non si è mai visto morire un giardiniere… (tuttavia) le rose non lo sanno, ma i giardinieri possono anche morire… di fame, di stenti, di guerre, di catastrofi «naturali», di inquinamento, di disastri ambientali, di Aids, di colesterolo o di obesità. O di tutte queste cose contemporaneamente. Ci vuole proprio una grande fiducia nelle risorse dell’uomo per pensare che da tutto ciò ci tirerà fuori l’estetica.

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