[10/07/2006] Recensioni

La recensione - Il potere del consumo di Vanni Codeluppi

Vanni Codeluppi insegna sociologia dei consumi nelle sedi di Miilano e Feltre dell’Università Iulm ed è quindi uno degli osservatori ed analisti più attenti alle dinamiche ed alle psicodinamiche che contraddistinguono e presiedono le economie occidentali e non solo.
La lettura di questo testo è istruttiva soprattutto per coloro che ritengono non rinviabile uno sviluppo sostenibile, un consumerismo eco-equo-solidale, la realizzazione di una prospettiva tendente all’obiettivo «rifiuti ed emissioni zero». Non già per trarne motivi di scoramento o, peggio, di abbandono di questi obiettivi, bensì per lucidare e affinare le armi della critica insieme alla messa a fuoco dei gangli delle contraddizioni e delle necessarie pre-condizioni che dovrebbero presiedere a quegli obiettivi. Senza di ciò, in campo rimarrebbe la testimonianza. Sempre rispettabile, ci mancherebbe, ma incapace di aggredire il “cuore” dei rapporti di potere con il necessario consenso. Questione imprescindibile, anche questa, nelle società democratiche.

«Ciò che caratterizza le società occidentali odierne (ma potremmo aggiungere che comincia a contraddistinguere anche le economie asiatiche, ndr) non è infatti la produzione dei beni, e tantomeno dei produttori necessari per la loro creazione. E’ la produzione dei consumatori… è il compito di educare al consumo». Anzi all’acquisto, dice Codeluppi. E, come ha osservato anche Jeremy Rifkin, questo tipo di società «contaminata dal consumo» ha plasmato un tipo di capitalismo definibile come «capitalismo culturale».

Siamo ben oltre la «mercificazione della società» già individuata dai critici del capitalismo ottocentesco, siamo alla «forza manifestata in ogni spazio sociale dalla cultura del consumo… a causa di quell’irresistibile fascino che le merci sono in grado di esercitare sulle persone» come una sorta di legge che impone a tutti di comportarsi da consumatori in qualsiasi ambito. E’ questo, in questa precisa fase storica, il cuore egemonico delle società capitaliste. Tanto egemonico è, questo cuore, che ha avuto un ruolo fondamentale nel crollo delle burocratiche società dell’est europeo. Tanto egemonico, questo cuore, che ha pervaso anche il «comunismo» cinese. E, come riportano i giornali, «nel suo primo anno di pontificato, Benedetto XVI è apparso in pubblico indossando e utilizzando una serie di marche ben riconoscibili: scarpe Geox, occhiali da sole Serengeti Bushnell, iPod nano della Apple, mocassini Prada, poltroncine Natuzzi, per tacere della sua Mercedes corazzata».

Si spiegano in parte così, dunque, il raddoppio – certificato da Bankitalia nell´ultimo decennio – della propensione all´indebitamento delle famiglie italiane, e le consistenze del credito al consumo in Italia – dati Abi-Assofin – passate da 57,9 a 68,7 miliardi di euro (+18%), tra settembre 2004 e settembre 2005.

Le merci vengono prodotte per il consumo immediato. Il loro valore non consiste nell’utilità e nella durevolezza, ma nella vendibilità. Esse si logorano anche se non vengono usate, perché sono state pensate per essere soppiantate da prodotti nuovi, da una nuova moda. La distruzione della merce legata al suo uso non avviene cioè tanto sul piano fisico, ma proprio su quello della sua valorizzazione simbolica, il cui compito è caratteristico della pubblicità. Con il risultato che l’attività di scelta diventa più importante di ciò che viene scelto e il piacere insito nello shopping è maggiore di quello che può procurare la merce una volta acquistata. «I consumatori sono prima di tutto raccoglitori di sensazioni: sono collezionisti di cose solo in un senso secondario e derivato». E infatti, da un report di «Pambianco strategie d’impresa», emerge che l´anno scorso i primi 25 gruppi del sistema moda italiano hanno aumentato i ricavi di oltre il 12% a 25 miliardi. Quasi il doppio rispetto al mini balzo, il 6,4%, del 2004. Ecco perché, per quanto sincere (e giuste) siano, le “prediche” sulla durevolezza dei prodotti, sulla necessità di una loro manutenzione, sulla possibilità di adoperarli collettivamente come servizi, sul «benessere» al posto del «beneavere», non riescono a scalfire il corso, l’alveo, del fiume in piena dei consumi.

Il consumo come cultura egemone nelle società occidentali è esemplificato da Codeluppi con il più grande museo al mondo, il Louvre, che è stato dotato di un centro commerciale interno; ma anche con gallerie commerciali e ristoranti dentro gli ospedali; con gli spropositati investimenti pubblicitari per promuovere medicinali spesso assolutamente inutili e/o facilmente sostituibili con sostanze anche mille volte meno costose.
I media, soprattutto la televisione, con la pubblicità operano sui bambini come una sorta di precoce addestramento ai consumi e… da ciò ne è derivata una crescente sostituzione della cultura pubblica da parte della cultura commerciale: «Il linguaggio delle merci sostituisce il linguaggio della democrazia e il consumismo sembra essere il solo tipo di cittadinanza offerto ai bambini, per i quali la libertà della democrazia coincide con la libertà di consumare tutto quello che desiderano». Anzi, peggio, con la libertà di consumare anche oltre i loro desideri e, addirittura, prima dei loro desideri.
Proprio la prevalenza del discorso pubblicitario sui mezzi di comunicazione non ha solo un impatto essenziale sui loro conti, e dunque sul modo in cui essi si collocano nella vita sociale costituendo una rete di dipendenze economiche bensì sul mantenimento dell’asse egemonico che tiene in piedi le società occidentali. Non a caso Codeluppi, parafrasando Clausewitz, definisce «la guerra come la promozione del libero commercio globale con altri mezzi».

Dunque se i gangli dell’insostenibilità sono questi (sostenuti da bocche di fuoco come la pubblicità che solo in Italia ha un fatturato annuo stimato in circa 100 mila miliardi, da lavoro a circa 150.000 lavoratori,ed è divenuta materia per facoltà universitarie) e producono dati duri quali 18 miliardi di dollari spesi annualmente dai consumatori occidentali per i prodotti di bellezza; 17 miliardi di dollari spesi per mantenere gli animali da appartamento; 15 miliardi di dollari spesi per acquistare profumi e cosmetici ( solo in Italia, nel 2005, sono stati spesi 8.000 milioni di euro); in contrasto con una spesa stimata in 19 miliardi di dollari annui per raggiungere l’obiettivo dell’eliminazione della fame nel mondo, o dei 12 miliardi di dollari per assicurare la salute riproduttiva a tutte le donne o, ancora, dei 10 miliardi di dollari per garantire acqua pulita a tutti gli abitanti del pianeta; ebbene, se questi sono i gangli dell’insostenibilità sociale ed ambientale, a questa altezza vanno aggrediti.

Dal «basso», certo, (nonostante tutto, «la conoscenza e l´interesse per il marchio che garantisce un prodotto etico è espansione nella fascia di età che va dai 15 ai 24 anni», come spiega Barbara Crowther, di Fairtrade Gran Bretagna), ma soprattutto «dall’alto», influenzando (e ricostruendo?) i luoghi del potere. Proprio perché, come osserva Codeluppi, anche il potere ha subito negli ultimi decenni una ridislocazione: «Tra i 100 maggiori sistemi economici mondiali, 51 sono imprese multinazionali, mentre gli altri 49 sono stati nazionali». Insomma, un «mondo migliore è possibile» ma va ricostruito il primato della «polis» sulla economia e….come è da tempo evidente, «….la necessità di socializzazione della politica si presenta sempre meno come sogno generoso, come astratta domanda di democrazia, e sempre più come necessità pratica: “economica”!».

Torna all'archivio