[26/06/2006] Rifiuti

Ecomafia effetto dell’arretratezza politica, amministrativa, tecnologica

ROMA. Fu Legambiente ad accendere nei primi anni ‘90 il riflettore sul ‘pianeta’ rifiuti e Enrico Fontana, direttore de ‘La nuova Ecologia’, a imporre il termine ecomafie, che ormai da vari anni ha trovato posto nel vocabolario italiano. Va detto che il Parlamento fu assai pronto nel recepire lo stimolo, come non capita spesso, istituendo già nel ’95 la prima Commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti. Due anni dopo venivano recepite, purtroppo con ritardo di anni, le più importanti direttive europee di settore nel decreto “Ronchi” e si cominciava ad articolare il sistema di prevenzione e controllo costituito dall’Anpa, poi Apat, e dalle Arpa regionali. Che cos’è che non funziona? Perché lo spazio delle ecomafie appare allargarsi anziché restringersi?

I rifiuti sono sempre stati terreno di scontro, di corruzione, di appannaggio della delinquenza organizzata, contagiando e invadendo il terreno politico e istituzionale. Come non ricordare che il record delle iterazioni di un decreto legge, ben 17 quando ancora si calpestava il dettato costituzionale, è quello sulle materie prime seconde nato dall’esigenza dell’ Enel di disfarsi delle ceneri delle sue centrali termoelettriche?

Il terreno dei rifiuti è arduo e complesso ed è bene dire con chiarezza che la difficoltà, che anche in sede europea la definizione di rifiuto incontra, esplicita con evidenza lo scontro tra gli interessi imprenditoriali dei diversi Paesi. I margini per fare gli “ecoprimi” della classe si sono molto ristretti, e l’atteggiamento in materia della Germania è decisamente eloquente, anche se il sistema rifiuti messo in piedi da quel Paese resta per noi un traguardo ancora lontano.

Il mercato italiano è troppo frazionato, nessuna impresa riuscendo ad arrivare a una quota del 5%, neanche la più grande; e la concorrenza è quasi inesistente, a vantaggio dei furbi e a danno degli utenti. Non esiste ancora una cultura e un sistema industriale sufficientemente forti da operare a tutto campo - gli inceneritori sono a tutt’oggi il maggior richiamo per un’industria il cui Ecg è tendenzialmente piatto sugli altri pur assai rilevanti settori -; non esiste un pool di imprenditoria sana e corretta nei comportamenti, sufficientemente importante e grande da poter fare da riferimento. Il sistema di prevenzione e controllo è partito con ritardo e non è ancora completo, sicuramente riguardo agli organici; generale punto debole del Paese, soffre in alcune regioni di “sudditanza psicologica” nei confronti delle imprese e in altre di presenza della criminalità organizzata.

La scarsa cultura tecnica della maggior parte delle amministrazioni non giova certo a organizzare il ciclo integrato dei rifiuti; e la sistematica sottovalutazione di alcuni responsabili politici spiega perché Napoli e la Campania stiano in una continua e inaccettabile emergenza. Ma i treni carichi di rifiuti per la Germania non partono solo da Napoli; a tutto il 2004 partivano da Milano come da Trento, che è un modo furbo per non dichiarare l’ emergenza. E per la raccolta differenziata intere regioni e grandi comuni si trovano ancora oggi al di sotto dell’obiettivo che la legge prevedeva per il 2002; figuriamoci, allora, il passaggio da tassa a tariffa.

Non è difficile immaginare che cosa possa significare in questo contesto l’esistenza di aree del Paese controllate dalla criminalità organizzata. Per circa 15 anni c’è stato un vero far west con colossali flussi illegali lungo la rotta Nord-Sud, con la devastazione di interi pezzi del territorio adibiti dalle mafie a siti per lo smaltimento clandestino - uno per tutti il famoso litorale Domizio-Flegreo -, in un perverso circuito di scavi illeciti e uso per costruzioni abusive del materiale scavato per far posto ai rifiuti. Al punto che alcune di queste aree furono inserite nel primo elenco nazionale delle bonifiche.

Il traffico dei rifiuti si è poi rivelato, nelle indagini della Commissione da me presieduta, un vettore per la presenza della mafia in aree non tradizionali. Ed è banale che la criminalità organizzata protenda la sua mano su tutto ciò, inclusi gli scavi archeologici e la gestione dei reperti, che si svolge sui territori che controlla.

L’ aumento dell’attività di repressione che si è costantemente registrato in questi ultimi dieci anni, correlato a una maggiore attenzione delle istituzioni preposte, viene tradotto in cifre dai rapporti di Legambiente; e talvolta scambiato tout court per un’ aumento della criminalità con allarmismi un po’ giornalistici. Ma non c’è dubbio che questa repressione avrebbe effetti ben maggiori, con un peso esplicito nello scoraggiare i diffusissimi comportamenti illeciti, se le indagini, sempre assai difficili e di poca “gloria” per magistrati e polizia giudiziaria, potessero fruire degli strumenti attivabili ove i reati ambientali fossero fattispecie precise di un titolo del codice penale, come avviene da tempo in tutti i Paesi civili, Portogallo e Grecia inclusi.

E la necessità di infliggere pene non riguarda solo le ecomafie, sia ben chiaro. Gli sfasci ambientali operati al Sud dalla criminalità organizzata hanno il loro corrispettivo al Nord eminentemente a opera di industrie che gestiscono in modo criminale i rifiuti speciali o pericolosi da loro prodotti.

Se poi estendiamo lo sguardo al Mondo, non solo il Mediterraneo si presenta come una delle grandi rotte delle ecomafie, ma intere aree del pianeta, tra le più povere, sono oggetto delle triangolazioni per lo smaltimento illegale dei rifiuti pericolosi. Ma per questo rimando ai documenti specifici approvati dalla Commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti nella XIII legislatura, disponibili on line sul sito della Camera dei deputati. En passant, lì viene esplicitata con chiarezza la “waste connection” - armi per i “signori della guerra” in cambio di territorio per smaltire scorie - che, continuo a pensare e proporre dal ‘95, è alla base dell’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.

Questi ultimi accenni erano solo per restituire alle ecomafie la dimensione globale che hanno da tempo assunto, non davvero per trovare alibi alla situazione italiana. Essa, a meno delle punte di eccellenza nella gestione dei rifiuti che esistono anche in Italia, può essere riassunta, nel complesso e per il sistema Paese, con una sola parola: arretratezza. Arretratezza, giova ripeterlo, politica, amministrativa e tecnologica. In questo quadro, è tutta salita respingere correttamente la sindrome nimby di chi si oppone a ogni impianto. Ed è bene che amministratori e decisori politici anche in questa, come nelle varie opzioni industriali e economiche in cui si articolano le politiche della sostenibilità, abbiano ben presente che si pagano i prezzi di un rapporto di scarsa fiducia, quando non di diffidenza o timore, dei cittadini nei confronti dello Stato e delle sue articolazioni.

Infine, la battaglia contro l’arretratezza in questo settore, così rilevante per la vita quotidiana dei cittadini, deve essere un impegno su cui chiamare a verifica il governo dell’ Unione dopo il laissez faire o le aberrazioni (si pensi al decreto “Scanzano”) dell’era Berlusconi.
* Massimo Scalia è presidente del Movimento Ecologista

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