[20/07/2009] Comunicati

La crisi anche in Toscana apre (aprirebbe) le porte alla green economy

FIRENZE. Sindacati, organizzazioni d’impresa, centri studi della Toscana segnalano la riduzione dell’apparato produttivo della regione, la caduta della capacità produttiva, la caduta dell’occupazione a fronte della crisi globale e del restringimento del credito; che una regione fortemente orientata all’esportazione come la Toscana rischia molto in settori tradizionali (tessile abbigliamento calzature) ma anche nei poli industriali rimasti: siderurgia, scooteristica, ferroviaria, impiantistica. Ma anche il settore turistico va male ed è un settore esportatore: quando turisti stranieri vengono da noi con la loro valuta è come se esportassimo musei, pinacoteche, paesaggi, ristoranti, alberghi, ecc. Gli operatori sono molto preoccupati: i dati parlano chiaro. Ma forse avevano contato un po’ troppo su Berlusconi.

Le maggiori organizzazioni ambientaliste, le altre battagliano contro l’eolico, dicono che una risposta alla disoccupazione e al lavoro precario può venire dalla riconversione di attività industriali in crisi da domanda o da costi, e da nuovi investimenti per la riqualificazione ecologica dei prodotti (riciclabili e a più lungo uso), al risparmio energetico (riconversione di edifici a partire da quelli pubblici sia per il caldo che per il freddo), nuove fonti di energia (solare –termico, fotovoltaico, termodinamico-, eolico, risparmio e uso razionale, fonti di calore industriale, ecc.), la riconversione del trasporto privato verso quello pubblico a più bassi consumi ed emissioni di carbonio, l’innovazione tecnologica nel campo dei sistemi automatici di controllo e distribuzione dell’energia e dei consumi energetici in tutti i campi: industriali, servizi, domestici, sanitari, scolastici, trasportistici, riciclo, riuso, ecc.

Su tutti questi argomenti si ode un gran silenzio dal versante politico, a parte la generica solidarietà per chi perde il posto di lavoro, un po’ meno verso i precari lasciati senza nulla dalla sera alla mattina, anche perché i partiti, dopo decenni di liberalizzazione forzata del mercato del lavoro non sanno cosa dire e ci sarebbe da sperare che fossero anche un po’ in imbarazzo. E a parte qualche convegno sui lavori verdi e sulla riforma del welfare (tutte cose necessarie per carità) non si sente altro.

Per le cose da fare, ossia gli investimenti in ricerca scientifica e tecnologica, impianti industriali, sostegno alla domanda di nuovi prodotti per beni di investimenti (macchinari, infrastrutture, formazione, ecc.) per prodotti di largo uso, ma a basso rilascio di carbonio, nuova occupazione, sono ingenti. E gli industriali, gli operatori turistici o dei servizi non lo faranno mai se non coinvolti un grande programma di investimenti pubblici anche regionali (le risorse necessarie sono l’agire in deficit temporaneo e l’applicazione rigorosa del fisco); il mercato non è in grado di far fronte a conversioni di questa portata; crea le crisi (ed è anche un pessimo allocatore di materie prime, merci, denaro e capitale, del reddito non parliamo neanche visti i risultati) ma non sa risolverle.

Dopo aver predicato per decenni che bastava affidarsi al mercato e liberalizzare tutto: finanza, acqua, trasporti, sanità, beni comuni come territorio e ambiente, così ci sarebbe stata più ricchezza per tutti, cosa ci dicono oggi i nostri industriali e i nostri politici?

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