[08/07/2009] Comunicati

Tra salute, ambiente, comunicazione e principio di precauzione

FIRENZE. «L’incertezza si misura, non è un valore astratto. E il decisore politico deve valutare l’incertezza e agire in base a questa valutazione, non puntare ad una certezza che non c’è»: in questa dichiarazione di Fabrizio Bianchi sta il senso del seminario “Ambiente e salute: aspetti scientifici, etici e di comunicazione”, tenutosi oggi a Firenze e organizzato dalla scuola internazionale ambiente salute e sviluppo sostenibile (Siass) di Arezzo.

Bianchi, co-autore insieme a Fiorella Battaglia e Liliana Cori del testo “Ambiente e salute: una relazione a rischio”, presentato oggi, ha poi sostenuto la necessità di «passare da una “black box epidemiology” ad un’epidemiologia che consideri le cose in modo più ampio, ad esempio tenendo presente, nell’analisi, anche i fattori di natura non strettamente sanitaria». Per esempio aspetti politici, sociali e/o economici che, se adeguatamente integrati con quelli di natura prettamente sanitaria, possono condurre a indicazioni più agevolmente applicabili da parte dei decisori politici.

Emblematico, in questo senso, il caso dell’amianto: secondo Bianchi, infatti, «la curva degli effetti derivanti dalla diffusione dell’amianto (sia la morbosità che la mortalità, che peraltro, purtroppo, sono tuttora quasi coincidenti, nel caso del mesotelioma da esposizione a fibre di amianto) sta ancora crescendo, mentre in altri paesi essa sta scendendo» perchè il picco è già stato raggiunto e iniziano a sentirsi gli effetti di politiche precauzionali adottate più tempestivamente. In Italia, invece, «abbiamo aspettato decenni per intervenire», anche in conseguenza di un insufficiente dialogo tra la medicina e la politica che ha causato l’assenza di azioni ispirate al principio di precauzione.

E’ quindi una logica analitica integrata quella indicata dagli autori del libro, e proprio a questa integrazione è stato dedicato il seminario odierno, pensato per «allargare il dibattito dalle esperienze quotidiane alle politiche pubbliche e viceversa» nell’approssimarsi della 5° conferenza interministeriale dell’Oms su ambiente e salute (Parma, inizio 2010).

A questo proposito Sonia Cantoni, direttore Arpat, ha evidenziato come le conoscenze a disposizione sui temi dell’ambiente e della salute siano «ancora troppo poche, anche perchè molti argomenti devono ancora essere messi a fuoco, e in molti casi deve ancora avvenire il passaggio dalla scienza all’applicazione di questa scienza».

E con questa discrepanza tra scienza e sua applicazione, chi si occupa di sostenibilità (oltre ad ambire al perseguimento di essa) si trova a scontrarsi quasi quotidianamente. Ma proseguiamo: «inoltre» - ha aggiunto Cantoni - è ancora poca la prevenzione. Avendo lavorato in altre realtà, però, ho notato che in Toscana il terreno per queste tematiche è fertile, sia per motivi culturali/politici, ma anche perchè ci sono istituti di eccellenza (ad esempio Cnr e Ispo) ed è attivo almeno in teoria, poi nella pratica le cose vanno diversamente, un buon modello di governance, come dimostrato ad esempio dai Piani integrati di salute (cioè lo strumento partecipato di programmazione integrata delle politiche sociali e sanitarie a livello di zona-distretto, nda) attivati dalla Regione. Anche la stessa Siass ha proprio l’obiettivo di formare e comunicare in modo integrato su ambiente e salute».

Riguardo alla difficoltà (e ai costi) dell’agire in direzione della bonifica dei territori inquinati, Cantoni ha citato anche la necessità di un diverso modello pianificativo, che punti a «vedere lo sviluppo del territorio alla luce dell’ambiente, e quindi pianificare tenendo conto delle indicazioni di chi è esperto in materia ambientale e dei limiti che caratterizzano l’ambiente stesso»: una strategia che quindi possiamo definire come “preventiva”, che si contrappone (o che, più realisticamente, è da considerarsi di complemento) a quella dell’intervento “a posteriori” in larga parte adottata finora per la bonifica dei siti inquinati.

E veniamo alla questione a nostro parere più interessante e centrale, e cioè il principio di precauzione: concetto ampiamente abusato, ma in realtà introdotto, nell’accezione attuale, dalla Commissione europea in una sua comunicazione (COM/2000/0001 def.) nell’anno 2000. Secondo la Commissione, infatti, il principio di precauzione «trova applicazione in tutti i casi in cui una preliminare valutazione scientifica obiettiva indica che vi sono ragionevoli motivi di temere che i possibili effetti nocivi sull´ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante possano essere incompatibili con l´elevato livello di protezione prescelto dalla Comunità (europea, quella che oggi è chiamata “Unione europea”, nda)».

La Comunità, infatti, ha il diritto di stabilire il livello di protezione - in particolare per quanto riguarda l´ambiente e la salute degli esseri umani, degli animali e delle piante - che ritiene appropriato. Il ricorso al principio di precauzione costituisce una parte fondamentale della sua politica e le scelte che essa effettua a tal fine continueranno a influenzare i punti di vista che la Commissione difende internazionalmente sui modi di applicare il principio in questione».

Inoltre il principio di precauzione «dovrebbe essere considerato nell´ambito di una strategia strutturata di analisi dei rischi, comprendente tre elementi: valutazione, gestione e comunicazione del rischio. Il principio di precauzione è particolarmente importante nella fase di gestione del rischio».

Ed è appunto nella gestione del rischio che si possono riscontrare, attualmente, le principali linee di convergenza tra la politica sanitaria e quella ambientale, essendo quest’ultima spesso inerente all’analisi di fenomeni che non hanno un impatto immediato e immediatamente riconoscibile, ma le cui conseguenze agiscono in un tempo successivo (si prenda come esempio l’allarme sul Gw, fenomeno già oggi imponente, ma che nei prossimi 100 anni potrebbe diventarlo enormemente di più).

Ed è invece la comunicazione che, più degli altri aspetti, ha maggiori ambiti di miglioramento: la scienza tipicamente non nasce per comunicare la complessità, ma per sbrogliarne la matassa e lasciare poi ai “comunicatori” il compito di diffondere la cultura che ne deriva. Ma, come abbiamo spiegato sopra, è proprio nella carente (e soprattutto nella cattiva) comunicazione tra “scienziati” e “decisori” che sta spesso il motivo della insufficiente attivazione su alcune questioni centrali per la sostenibilità, come (solo per citarne due) il surriscaldamento globale o la degenerazione dei flussi di energia e di materia che costituiscono il metabolismo economico.

La politica e l’informazione, col passare del tempo e col progressivo radicarsi dei temi inerenti alla sostenibilità, “cresceranno” e adotteranno un approccio e una metodologia operativa più “scientifiche”? E’ possibile, anzi è probabile. Ma un ruolo fondamentale, in questo senso, è quello relativo all’evoluzione della comunicazione scientifica e sanitaria, sia in direzione della comprensione dei problemi da parte della classe politica (cioè da parte di chi “applica” questa scienza), sia da parte del sistema mediatico (che la “racconta” e, almeno in teoria, la “spiega”), sia – ultimo ma non ultimo – anche da parte della comune cittadinanza.

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