[06/07/2009] Recensioni

La Recensione. Quando arrivano le cavallette di Arundhati Roy

LIVORNO. Come dice Naomi Klein in quarta di copertina di questo piccolo ma densissimo libro «Nelle mani di Arundhati, le parole diventano armi, le armi dei movimenti di massa».
La scrittrice indiana del Kerala, autrice del Dio delle piccole cose, in questa raccolta di 8 saggi pubblicati prima delle recenti elezioni indiane che hanno confermato il Partito del Congresso al potere in India, ci dà un quadro di quel che accade nel subcontinente molto diverso da quello che leggiamo sui giornali o che filtra in pochi scampoli televisivi. Ci parla, vista da un lato forse estremo ma molto illuminante perché raccontato dalla parte degli ultimi (che in India sono moltitudine) dei disperati e dei paria, della complicata realtà di un Paese che noi crediamo in una lineare crescita inarrestabile e virtuosa, delle sue colossali contraddizioni, degli sprechi di ambiente, delle vite tagliate dei poveri contadini sacrificati ad un progresso nazionale trasformatosi in ideologia (così poco indù, dice la Roy) che viene brutalmente incarnata nel partito fascista-induista Bharatiya Janata Party (Bjp) che governa interi Stati dell’Unione indiana (e per una legislatura l’intera India) ingrassandosi di odio, genocidi di musulmani, estremismo e localismo messi al servizio delle nascenti o ormai consolidata multinazionali indiane.

Ci parla di una guerra sconosciuta per il controllo delle risorse ambientali e l’acqua, di contadini disperati e suicidi che vanno ad ingrossare le fila della guerriglia maoista naxalita, della guerriglia etnica, della disperazione Dalit, ma che si fanno anche affascinare dal populismo del Bjp, dalla retorica e dalla purezza indù, rendendosi protagonisti di massacri di musulmani e cristiani. Ci parla degli strani comunisti armati di bastone, alleati delle multinazionali nel nome della crescita e del progresso nazionale.

Un progetto di “progresso” che sta di fatto svuotando la più grande democrazia del mondo «un agghiacciante nuovo linguaggio intriso di aggressività ed odio». Il nazionalismo fascista indù sembra essere stato iniettato nelle vene di questo grande Paese insieme alla globalizzazione delle multinazionali, provocando una mistura che sembra diffondersi in molti Paesi in via di sviluppo e arrivare fino alla ricca Europa (dove il veleno xenofobo-nazionalista era già stato sperimentato con effetti micidiali).

Non a caso la prefazione è intitolata “il crepuscolo della democrazia” ed Arundhati Roy si chiede esplicitamente: «E allora, c’è vita dopo la democrazia?».

Nel saggio che dà il titolo al libro la scrittrice indiana ci ricorda l’universalità del genocidio e fa del massacro degli armeni turchi e dei musulmani e cristiani indiani il paradigma di quel che accade in troppi Paesi del mondo. Massacri che troppo spesso trattiamo come esotiche ferocie e che invece disegnano nel sangue e nella calcolata ferocia il destino del mondo globalizzato, facendo la fortuna politica di uomini mediocri e potenti che ci sono sconosciuti. «Certo – scrive la Roy - al giorno d’oggi, quando la politica del genocidio incontra il libero mercato, l’ammissione ufficiale o la negazione di olocausti e genocidi è un business internazionale. Solo di rado ha a che fare con eventi storici o prove giuridicamente valide. E certo in questo quadro la moralità c’entra poco. E’ un aggressivo processo di contrattazione ai massimi livelli, legato più al Wto che all’Onu. La valuta corrente è la geopolitica, il mercato ondivago delle risorse naturali, quegli oggetti curiosi chiamati futures e la cara, vecchia e semplice idea della potenza militare».

E ancora: «In parole povere, la crescita o la diminuzione del prezzo di un barile di greggio o di una tonnellata di uranio), l’autorizzazione alla costruzione di una base militare o l’apertura agli investimenti dell’economia di un paese possono rivelarsi fattori decisivi nel momento in cui un governo debba giudicare se un genocidio abbia o no avuto luogo. Oppure se un genocidio avverrà o no».

Sono queste le nuove cavallette in arrivo che divorano la trama del mondo, che hanno la faccia terribile di tutti i fascismi che abbiamo conosciuto e le nuove e potenti mascelle di una modernità che nessuno sa bene dove ci porterà ma che sta già divorando destini e speranze dei più poveri.

Guardato dall’India, dalla lucida visionarietà di Arundhati Roy che nulla concede e che demolisce gli stereotipi dell’India di Bolliwood e ci racconta delle migliaia di contadini suicidi da Ogm e tassi bancari insostenibili, dei profughi scacciati dalle dighe che alimentano la Tata e le altre industrie pesanti dell’eterea India che prega ed uccide con lo stesso trasporto, il mondo sembra avere poca speranza e il futuro sembra un confuso scivolamento verso un totalitarismo soft che concede il controllo delle risorse a scherani locali che guidano gli sciami di cavallette che divorano ambiente e vite.

Visto da questo immenso Paese, destinato a diventare il più popoloso del mondo e la seconda potenza economica del pianeta, che raccoglie in sé tutte le contraddizioni e i pericoli, dal terrorismo al razzismo, dall’integralismo religioso allo spreco devastante di risorse naturali, il nostro futuro sembra il confuso e brulicante Nirvana di un film di Salvatores che i nostri occhi occidentali non riescono a decodificare.

Il libro della Roy è una guida di parte ed illuminante proprio perché non viene dalla retorica dell’inevitabile destino splendente dell’India che richiede inevitabili vittime sacrificali da immolare sull’altare della crescita e della grandezza nazionale. Un libro che può sembrare disperante, ma che ci racconta anche di chi sta lavorando, sconosciuto e coraggioso, per fermare le cavallette.

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