[29/06/2009] Parchi

Greenpeace: «Più Amp per mitigare l’inferno del Mar Mediterraneo»

ROMA. Greenpeace ha reso noto oggi il rapporto “Un mare d’inferno – il Mediterraneo e il cambiamento climatico”, che conferma «in modo inequivocabile che anche il Mediterraneo sta cambiando, Alto Adriatico, mari del sud Italia (Sicilia, Puglia e Calabria), e Alto Tirreno (soprattutto Arcipelago Toscano e mar Ligure) registrano già gravi danni a causa del cambiamento climatico».

Il rapporto evidenzia alcuni esempi eclatanti colti nell’enorme mole di dati ormai messi a disposizione dal mondo scientifico e tratti da una bibliografia di quasi trenta pubblicazioni.

Secondo Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace Italia, «Non è più questione di “se o di ma”. Ormai siamo dentro il cambiamento climatico e dobbiamo intervenire con urgenza per arrestare una deriva che rischia di essere incontrollata e irreversibile. Occorre immediatamente ridurre, e poi azzerare, le emissioni di gas serra e, nel frattempo, irrobustire i nostri ecosistemi, compreso il mare, per evitarne il collasso».

Il Mediterraneo, è meno dell’1% della superficie marina globale ma ospita, dal 5 al 15% della biodiversità marina nota, ed è anche sempre più caldo ed acido: « Gli effetti del riscaldamento climatico sono ormai evidenti anche nel Mediterraneo, e non risparmiano gli strati più profondi di un mare semi-chiuso e di piccole dimensioni ma con fosse abissali che superano i 6.000 metri. Negli strati profondi del Mediterraneo è stato dimostrato un aumento annuo di temperatura dell’ordine di 0,004°C. Questo costante aumento, in apparenza modesto, è ritenuto estremamente significativo per un ambiente straordinariamente stabile quale quello degli abissi marini: altri studi hanno infatti dimostrato che le comunità biologiche abissali rispondono più rapidamente del previsto ai cambiamenti climatici. Più in superficie, e lungo le coste, l’aumento delle temperature è di gran lunga maggiore. L’aumento medio registrato nel Mediterraneo nord-occidentale è di 1°C negli ultimi trenta anni, mentre l’ondata di calore del 2003 è stato l’evento più caldo registrato sott’acqua (oltre che su terraferma in Europa) degli ultimi 500 anni. L’aumento delle temperature, le variazioni delle precipitazioni e quindi degli apporti di nutrienti dei fiumi, così come le possibili modifiche alle correnti, sono stati variamente correlati (assieme alla pesca eccessiva) alla diminuzione delle popolazioni di specie ittiche di importanza commerciale».

«E’ necessario gestire meglio le attività umane che operano sul mare e uno degli strumenti più utili in tal senso sono le riserve marine – sottolinea Greenpeace - Dobbiamo mettere al sicuro grandi aree di mare per garantire il funzionamento di questo ecosistema. Un mare in salute potrà resistere meglio allo stress imposto dal riscaldamento globale, mentre un mare malato non ce la farà. E noi con lui!».

Greenpeace ha presentato da tempo una proposta per una rete di riserve marine «che copra il 40% del Mediterraneo, lungo le coste e in altura per proteggere specie ed habitat costieri e marini che siano più sensibili al cambiamento climatico. La realizzazione di questa rete, al 2012, è stata decisa dalla Convenzione di Barcellona (il principale Accordo Internazionale per la protezione del Mediterraneo) con la Dichiarazione di Almeria, adottata nel gennaio 2008».

Infatti gli effetti del cambiamento climatico non si limitano alle specie di importanza commerciale che sono oggetto di maggiori attenzioni da parte degli studiosi. «Ad esempio, lo stress causato da periodi relativamente lunghi di elevate temperature ha prodotto mortalità in massa di vari organismi, come molte specie di spugne, coralli (compreso il corallo rosso) e gorgonie.
Morìe di questo tipo sono state registrate in particolare nel 1999 e nel 2003 e in alcuni casi sono stati individuati, come responsabili, agenti patogeni (vibrioni) che si “attivano” con l’aumento delle temperature. Una brutta sorpresa: le temperature elevate “aumentano in modo significativo” l’infettività del batterio Vibrio shiloi, che risiede nel vermocane (Hermodice carunculata). Il batterio “attivato” causa danni notevoli non al vermocane ma al corallo Oculina patagonica, favorendone lo sbiancamento».

Un altro fenomeno sempre più frequente è quello delle mucillagini, sia nel Tirreno che in Adriatico. Mentre in Adriatico si ritiene che la causa di questi aggregati sia la crescita esplosiva di alghe (diatomee e dinoflagellati) causati da improvvise variazioni del flusso del Po e quindi dei nutrienti immessi nel sistema (Degobbis et al., 2000), nel Tirreno si tratta di proliferazione di alghe filamentose (quali Nematochrysopsis marina, Chrysonephos lewisii e Acinetospora crinita). L’effetto di soffocamento dei fondali di questa “copertura mucillaginosa” può essere grave. Tra l’altro, le mucillagini possono ostacolare anche le attività della piccola pesca costiera intasando le reti. Il fenomeno è stato messo in relazione con le anomalie climatiche.

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