[23/06/2009] Trasporti

Deragliamenti dei treni e modelli di sviluppo

FIRENZE. Secondo quanto dichiarato oggi dall’amministratore di Fs, Mauro Moretti, le prime indagini sembrano attribuire la causa del parziale deragliamento ferroviario (due vagoni-cisterna contenenti acido fluoridrico), avvenuto ieri mattina tra Vaiano e Prato, al malfunzionamento di una ruota di un treno merci passato in precedenza, che ha causato «la rottura di 4,5 km di traversine». Come riportato dalla stampa, il conseguente blocco della linea Firenze-Bologna ha causato ritardi di ore in tutti i convogli che dovevano percorrere quella che è la vera aorta dell’intero sistema ferroviario italiano, durati per tutta la giornata di ieri e ancora oggi in via di risoluzione.

Ora, senza ombra di dubbio si tratta di un evento che, se non fosse avvenuto il giorno dopo la tornata elettorale e in un momento in cui le notizie di rilievo (dalla vita spericolata del Premier alla situazione nella polveriera iraniana) si accavallano, sicuramente avrebbe ricevuto un’attenzione ben maggiore dai principali media generalisti, rispetto a quanto avvenuto. E, di sicuro, se la notizia avesse potuto ricevere una debita copertura ci saremmo trovati di fronte all’ennesimo dibattito sulla carenza o meno del sistema infrastrutturale italiano, con particolare attenzione alla vexata quaestio relativa alle “grandi opere”.

Invece, tra tutti i principali media nazionali, solo il “Sole 24 ore” ha finora affrontato la questione, riportando che, dal momento in cui (13 dicembre) verrà attivata la tratta Firenze-Bologna dell’alta velocità, inconvenienti analoghi continueranno ad avere influenza sulla circolazione dei treni locali, ma per quanto riguarda i treni ad alta velocità il discorso sarà diverso da quanto avvenuto ieri, quando i convogli Tav Milano-Roma hanno dovuto percorrere tratte alternative, come la linea Tirrenica per Pisa-Genova.

Secondo il quotidiano di Confindustria l’evento conferma «l’assoluta necessità di ammodernare la dotazione infrastrutturale del paese e proseguire lungo la via delle grandi opere», con particolare focus su «la Tav Milano-Venezia, il terzo valico Genova-Milano e l’ammodernamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria».

Una “via delle grandi opere” che non sembra invece convincere l’Anci (associazione comuni italiani) e la quasi omonima Ance, sodalizio dei costruttori edili, che a seguito di un incontro avvenuto ieri tra i rispettivi presidenti, Sergio Chiamparino e Paolo Buzzetti, hanno di concerto sostenuto la «necessità di interventi legislativi che agevolino il finanziamento di opere infrastrutturali urbane di medio-piccole dimensioni (del valore inferiore ai 5 milioni di euro), per lo sviluppo delle città e, contemporaneamente, la salvaguardia dell’occupazione in questa fase di crisi dell’economia», chiedendo anche una maggiore flessibilità del patto di stabilità.

Ora, è chiaro che la materia non è di quelle da affrontare con il machete: se è evidente che la linea “tante piccole opere e tanta manutenzione”, che greenreport sostiene da sempre per la politica territoriale, appare più applicabile (e più sostenibile sia socialmente sia dal punto di vista ambientale) rispetto a quella delle “grandi opere”, è anche nota a tutti l’impellenza di un sistema ferroviario che, come la Tav, si ponga come reale alternativa all’uso del mezzo privato e al trasferimento merci su gomma. E nessuna persona di buon senso si opporrebbe all’obiettivo di rendere l’inferno della Salerno-Reggio Calabria più agevole e meno pericoloso da percorrere.

Ciò che lascia perplessi è il radicamento della litanìa inneggiante alle “grandi opere” nel sistema produttivo italiano, anzi il suo radicamento in alcuni settori del sistema produttivo, mentre altri settori (come dimostra la proposta Anci-Ance) recentemente hanno assunto posizioni che ai nostri occhi appaiono più evolute perché finalizzate allo stesso obiettivo (il rilancio dell’economia), ma che intendono perseguirlo con soluzioni più realistiche, cioè più agevoli e più rapide da mettere in atto e decisamente più sostenibili per la popolazione che vedrà realizzati i progetti sul proprio territorio.

Citiamo, a questo proposito, il caso del Mugello, con i noti danni alle falde acquifere causati non tanto (o meglio, non solamente) da una cattiva realizzazione dell’alta velocità, ma fondamentalmente dall’opera in sé, e dalla necessaria deviazione delle falde acquifere che la costruzione di un tunnel di decine di km necessariamente comporta.

E’ ovvio ed è giusto che ogni area del paese paghi il suo tributo alla realizzazione di opere i cui (evidenti) vantaggi saranno goduti da tutti, ma è inutile nascondere la testa sotto la sabbia: il Mugello ha pagato alla Tav un tributo enorme, come un enorme tributo lo pagherà la città di Firenze se e quando avranno inizio i lavori per l’ormai famigerato sottoattraversamento Tav. Così come un tributo enorme paga qualunque comunità venga interessata dai cantieri per un’opera sicuramente necessaria, ma anche sicuramente di enorme impatto come la ferrovia ad alta velocità, in special modo in un territorio orograficamente difficile e densamente popolato in aree rurali come quello del Belpaese.

E allora viene da chiedersi - ancora una volta - quale modello di sviluppo infrastrutturale vada perseguito, se un modello improntato ad un intervento pubblico di natura cesaristica e spesso velleitaria, quale quello delle grandi opere, che tante chiacchiere ma ben pochi fatti ha prodotto in questi decenni, o se sia invece più adatto un modello elastico, improntato alla somma di tante piccole opere, facili e agevoli da cantierare, e da finanziare, e mille volte più sostenibili dal punto di vista ambientale, e soprattutto sociale.

Si parla tanto della dura opposizione del “popolo del no” alle grandi opere, e greenreport è sempre stato in prima linea nello stigmatizzare quelle forme di attivazione territoriale riferite alla sindrome Nimby o comunque testardamente in opposizione a qualsiasi proposta di sviluppo infrastrutturale. Ma forse, è giunto il momento di capire che, oltre alle colpevoli, testarde, eccessive rivendicazioni territoriali ispirate dal “popolo del no”, esistono anche le velleitarie, ideologiche, altrettanto testarde rivendicazioni e richieste di quello che si può definire il “popolo del si”. E, quando si va a chiedersi perché il paese è carente dal punto di vista infrastrutturale (se si ritiene che questa carenza sia effettiva, naturalmente), una risposta plausibile è che le colpe del “popolo del si” e di quello “del no” (ribadito che è responsabilità dei vari decisori politici di ogni schieramento ´decidere´) siano sostanzialmente due facce della stessa medaglia.

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