[23/06/2009] Comunicati

Stato e aziende contro il greenwashing in pubblicità, ma solo in paesi evoluti...

FIRENZE. Osservando le pagine dei principali quotidiani negli ultimi tempi, si nota con chiarezza che i temi inerenti alla sostenibilità sono affrontati sempre più frequentemente, e soprattutto in modo sempre più interdisciplinare e sempre meno settoriale. E’ una delle prove lampanti di ciò che ha giustamente affermato Alessandro Farulli su greenreport venerdì scorso, parlando di «evidente rivoluzione, anche culturale» in direzione della sostenibilità.

Ad esempio, sempre più rare sono le reclàme automobilistiche in cui si presentano veri e propri giocattoloni destinati ad “aggredire la strada”, a “dominare gli altri” e altre amenità inneggianti ad un moderno superomismo, tipiche della pubblicità dei Suv e simili. Sempre più frequenti, invece, sono pubblicità di case automobilistiche in cui è sottolineato come punto di forza il basso tasso di emissioni, o il basso impatto ambientale della filiera di produzione, eccetera.

Fenomeno analogo vale anche per gli annunci relativi alle case energetiche, che ormai da mesi tendono a sottolineare non più solo il basso costo dell’energia da esse trasformata e distribuita, ma ad introdurre sempre più frequentemente informazioni (e sollecitazioni emotive) relative alla sostenibilità del processo relativo. Questo aspetto è maggiormente comprensibile riferendoci alle recenti campagne pubblicitarie televisive di note aziende energetiche, nelle cui immagini ormai i vari impianti di energia rinnovabile (in primis le torri eoliche) svolgono un ruolo di primo piano, e il cui meta-messaggio è sempre più improntato alla sostenibilità della “produzione” (o meglio della “trasformazione”), del trasferimento e dell’utilizzo dell’energia.

Solo negli ultimi tempi, si può pure notare, si stanno riaffacciando negli spot televisivi pubblicità automobilistiche “tradizionali”, anche se ben più sobrie rispetto al passato e pure caratterizzate da ampi accenni alle basse emissioni: è, questo, un evidente segnale di quei “germogli di ripresa” che si cominciano a intravedere nel sistema produttivo globale, e va correlato sicuramente, nell’analisi, alla fase di crescita che il prezzo del petrolio grezzo sta subendo. E, anche se non si può definire una “buona notizia” il fatto che le campagne pubblicitarie stiano ritornando a stimolare il consumo di prodotti non sostenibili per definizione (a meno che non si voglia veramente credere alla spudorata balla del “Suv ecologico”), è giusto sottolineare quanto sta avvenendo poiché indica comunque indirettamente che l’economia sta ripartendo, sia pure ancora troppo spesso nella direzione di una promozione (e quindi, a monte, di una produzione) di beni che sono d’intralcio al cammino verso la sostenibilità.

Ora, lasciamo da parte questa ultima considerazione, ancora riferita a vaghi segnali di ritorno al passato (ancora da interpretare approfonditamente: potrebbero essere anche gli ultimi colpi di coda del modello pubblicitario passato), e ritorniamo alle considerazioni relative al presente: è evidente che la fase attuale è caratterizzata da un boom della pubblicità di processi e prodotti sostenibili.

C’è un problema, però, e non di poco conto: e banalmente possiamo riassumerlo nella parola “greenwashing”. Come sappiamo infatti, non è così difficile presentare un prodotto come “verde”, cioè come aderente ai criteri di sostenibilità ambientale, anche se esso non risponde affatto a questi criteri. E questo vale maggiormente nella fase attuale, in cui la stragrande maggioranza dei lettori (o di chi guarda gli spot televisivi) sono ancora pressoché “vergini” relativamente alle tematiche in questione, e quindi la possibilità di indottrinamenti e inganni è particolarmente in agguato. Ad esempio, difficilmente un telespettatore medio (o un lettore medio di quotidiani) capisce a quale effettiva mitigazione del Gw possa condurre un certo tasso di emissioni in meno pubblicizzato, e quindi difficilmente potrà discriminare tra le reclàme effettivamente “sostenibili” e quelle truffaldine. Più facilmente avverrà che se il telespettatore/lettore sarà indotto a pensare di aver comprato un’auto ecologica, poiché come tale essa è stata pubblicizzata.

Compito di chi fa informazione è naturalmente quello di aiutare il lettore a discernere tra gli imbrogli e le proposte “oneste”. Al pari, compito del cittadino è (e qui siamo nell’utopia...) quello di non farsi prendere per i fondelli, e in teoria sarebbe anche compito delle case produttrici quello di non fare pubblicità tendenziosa e/o falsa, ma anche qui si scivola nell’utopia più spiccata.

Ma c’è un altro attore in questa storia: ed è il Pubblico. Viene infatti da domandarsi se tra i compiti di chi ha ricevuto la delega democratica abbia posto non solo l’educazione ad un consumo responsabile, ma soprattutto la produzione di iniziative legislative (o comunque la messa in atto di azioni di “moral suasion”) finalizzate ad impedire ai produttori di pubblicizzare i beni da loro proposti in maniera truffaldina.

Forse una “legge contro il greenwashing”, perchè di questo stiamo parlando, può apparire una proposta eccessiva, poiché si tratta di un principio non facile da applicare burocraticamente senza scendere nella censura alla libertà di espressione, e che comunque sarebbe facilmente aggirabile. Ma un atto di moral suasion è invece stato già compiuto, e a produrlo è stato (come riporta “Repubblica” di oggi) il ministero dell’Ambiente spagnolo. In un incontro tenuto il 5 giugno scorso tra il ministro del Medio Ambiente y Medio Rural y Marino, Elena Espinosa, quattro aziende energetiche (Cepsa, Repsol, Acciona e Endesa) e cinque case automobilistiche (Kia, Chrysler, Citroen, Peeugeot e Renault), infatti, il ministero ha infatti proposto la messa in atto di un codice di autoregolamentazione con cui le aziende si sono impegnate a produrre pubblicità “verdi” non ingannevoli.

L’adesione delle aziende sarà ratificata nei prossimi giorni all’atto della stipula della relativa convenzione, ed è obiettivo del ministero quello di estendere l’accordo anche ai settori dell’alimentazione e della produzione di elettrodomestici. In pratica è prevista l’adozione di criteri condivisi da seguire per non incorrere nell’accusa di greenwashing (“lavado de cara”, cioè lavaggio di fronte, in spagnolo) e la creazione di un’autorità imparziale (il jurado de la publicidad de autocontrol) che si esprimerà nei casi in cui singoli cittadini o associazioni (sia pubbliche sia onlus) segnaleranno casi di pubblicità ingannevole.

Secondo il ministero l’iniziativa, che segue la traccia del recente codice di autoregolamentazione per la pubblicità di prodotti alimentari per l’infanzia, pure adottato recentemente dal governo spagnolo, riprende azioni analoghe condotte in Gran Bretagna, Francia e Belgio. Chissà se possiamo attenderci azioni analoghe in italia nei prossimi tempi, o se anche questo auspicio dovrà essere gettato nel cestino delle utopie irraggiungibili.

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