[28/04/2009] Energia

La pericolosa caccia al tesoro dell’Asia centrale

LIVORNO. Il sito ufficiale del governo Americano si occupa di una delle aree del mondo che sembrano immobilizzate da satrapie e regimi autoritari post-sovietici ma che sono sul bordo, e fanno da retrovia energetica, di quella che sembra l’area più calda ed infida del pianeta per la nuova amministrazione Usa e per i suoi alleati della Nato: l’Afghanistan-Pakistan, dalla quale, spazzati via i talebani da una vittoria mai avvenuta, avrebbero dovuto passare i tubi per collegare il petrolio e gas dei Paesi islamici ex sovietici ai porti “sicuri” sull’Oceano Indiano.

«Nella nostra epoca d’insicurezza energetica mondiale – scrive Carlos Aranaga su America.gov – le risorse dell’Asia centrale potrebbero diventare un fattore importante nell’equazione energetica. I Paesi di questa regione possiedono vaste riserve di petrolio e di gas naturale, così come dei giacimenti di uranio e delle risorse idroelettriche. Ma queste ricchezze sono situate in degli ambienti tra I più estremi del mondo, che presentano delle sfide tecniche formidabili, ed il loro sfruttamento esige delle conoscenze specializzate delle quali dispongono solo alcune società petrolifere internazionali, dicono gli analisti. Lo sviluppo di queste risorse e la loro esportazione verso i mercati mondiali rafforzeranno l´indipendenza, la sovranità e la crescita economica dei Paesi dell’Asia centrale, dicono dei responsabili ufficiali degli Stati Uniti. Alcuni analisti, però, senza disconoscere il contributo della regione può apportare alla diversificazione energetica dell’Europa, ci consigliano di guardarci da attese poco realistiche».

Insomma, il legame di questi Paesi con l’antico padrone russo è sempre fortissimo ed ogni tentativo occidentale di entrare nell’Asia post-sovietica deve fare i conti con questo legame mai dimenticato da dittatori ed uomini forti che amministrano petrolio e miseria. Johannes Linn, un analista della Brookings Institution e consigliere della Banca asiatica per lo sviluppo, sottolinea che «Gli investimenti stranieri diretti in Asia centrale si sono prosciugati a causa del forte calo delle materie prime, energia compresa, risultanti dal rallentamento economico mondiale. Un accesso allargato ad una gamma di mercati più vari, in particolare quelli dell’Europa, dell´India, della Cina e della Russia, giocherà in favore delle repubbliche dell’Asia centrale sul piano economico ed accrescerà la capacità della regione di negoziare prezzi migliori per la loro energia».

Multinazionali e governi occidentali sono d’accordo nel sottolineare il grande potenziale energetico che l’Asia centrale potrebbe mettere a frutto, ma l’attuale congiuntura ha come congelato l’esplosione di questa ricchezza, almeno fino a che i mercati internazionali non avranno superato le attuali difficoltà, «I bisogni di energia e i problemi di sicurezza premieranno verosimilmente sulle considerazioni legate ai costi finanziari e contribuiranno a superare degli occasionali ostacoli politici», dice Aranaga.

Un rapporto statunitense del 2008 sottolineava che il Kazakistan aveva già raggiunto l’autosufficienza per il gas e produceva la metà di tutto il petrolio del Mar Caspio.Un ricco piatto nel quale si è subito tuffata la Chevron nel 1993, mentre ancora le macerie dell’Urss erano calde, creando la Tengizchevroil e diventando così la prima multinazionale petrolifera occidentale a stabilire una presenza al Kazakistan. Una scelta lungimirante visto che, nonostante il ritorno in forze dei russi, la Chevron ha importanti quote in Karachaganak e Tengiz, i due principali progetti di estrazione di gas e petrolio del Paese. Secondo il governo Usa il Kazakistan nei prossimi 10 anni aumenterà la sua produzione petrolifera ma è necessario che il Paese si doti di nuove infrastrutture per l’esportazione degli idrocarburi se vuole mantenere la sua crescita.

Il Turkmenistan è, tra le 15 repubbliche ex sovietiche, il secondo produttore di gas dopo la Russia e ospita uno dei più grandi giacimenti di gas del pianeta, il solo campo gasiero di Yolotan-Osman sud, nel sud-est del Paese, contiene tra i 6 e i 14 miliardi di metri cubi di gas. Se il Turkmenistan riuscisse a sviluppare queste immense risorse di gas, potrebbe diventare uno dei protagonisti del cosiddetto “circuito del sud”, una nuova rotta del gas progettata per trasportare il petrolio e il gas del Mar Caspio e ridurre così la dipendenza energetica europea dagli approvvigionamenti che passano dalla Russia.

E’ probabilmente questa la vera guerra del gas che alimenta le turbolenze in quello che resta l’ineludibile passaggio a sud: il Caucaso e la Georgia. E’ qui che si giocano le due gare alle quali l’Europa (e l’Italia) partecipa indifferentemente: i progetti di Sud Stream e Nabucco, il primo per confermare l’egemonia gasiera russa, il secondo per aggirarla.

Una competizione che interessa non poco gli americani. In visita all’Ue a marzo il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton ha detto: «Si tratta di sviluppare dispiegare sforzi congiunti per creare nuove forme di produzione energetica, assicurando la sicurezza degli approvvigionamenti esistenti. E’ questa, io credo, una questione importante che l’Ue deve affrontare, quella di una nuova rete, di nuovi oleodotti e gasdotti e di tutte le installazioni e disposizioni che questa comporta».

Quel che non dice il governo Usa è che tutti questi Paesi sono anche alle prese con disastri ecologici di vastissima portata lasciati loro in eredità da una scellerata politica nucleare, agricola ed ambientale dell’Unione Sovietica (nella cartografia). Ma i regimi dittatoriali ed autoritari dell’Asia centrale hanno anche diversi problemi di affidabilità ed efficienza interna. Secondo uno studio del 2008 della U.S. Energy Information Administration (Eia), il Turkmenistan soffre ancora «di una mancanza di investimenti stranieri, di problemi geografici, di una infrastruttura per l’esportazione insufficiente e di una instabilità politica», e senza risolvere questi problemi non diventerà un grande esportatore di energia. Per l’Eia, l’Uzbekistan ha problemi infrastrutturali simili e la maggior parte della sua attuale produzione è ad uso interno. Il Paese dovrebbe avere riserve di petrolio per 594 milioni di barili e per oltre 66 miliardi di m3 di gas, concentrate in particolare in particolare nella regione di Bukhara-Khiva, con il campo petrolifero di Kokdumalak che da solo fornisce il 70% del petrolio e del gas prodotto attualmente in Uzbekistan. Gli altri forzieri petroliferi uzbechi sono nella valle di Fergana, nell’altopiano di Ustyurt e nel Mar d’Aral.

Tagikistan e Kirghizistan hanno risorse energetiche meno importanti ma potenzialmente e strategicamente significative. Il Kirghizistan importa gas e petrolio ma il suo territorio ha grandi potenzialità per lo sviluppo di energia idroelettrica e nasconde giacimenti di uranio. Il Tagikistan è alle prese con una crisi energetica preoccupante, visto che non riesce a pagare le forniture di gas e petrolio che gli arrivano dal suo principale fornitore: l’Uzbekistan, che così ha cominciato a chiudere i rubinetti del gas. Il Paese ha limitate risorse di petrolio ed uranio ed un grande potenziale idroelettrico.

Attualmente le multinazionali energetiche occidentali stanno investendo soprattutto in Kazakistan e Azerbaigian, i due terminali di partenza e di arrivo della rotta caspica. La compagnia statale malese, la Petronas, sta investendo in Uzbekistan e la Banca asiatica per lo sviluppo e la Banca mondiale pensano di finanziare progetti idroelettrici in Tagikistan e Kirghizistan.

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