[27/04/2009] Consumo

L’insostenibile pesantezza del maiale

LIVORNO. L’influenza suina che sta preoccupando il mondo ha le sue solide fondamenta in una popolazione sempre più affamata di carne e in una zootecnia che per fare i grandi numeri necessari al voracissimo mercato Usa e a quelli emergenti ormai ha industrializzato tutta la filiera dell’allevamento.

Nei maiali (o nelle mucche o nei polli) presi di per sé non c’è nulla di antiecologico, ma è il modello imperante di allevamento e consumi che mette a rischio ambiente e salute. Inoltre 6 miliardi di persone che si nutrono come gli occidentali non sarebbero semplicemente sopportabili dal pianeta.

Negli Usa nel 1955 si consumavano 61 kg di carne a persona all´anno, già nel 1990 si era arrivati ad 80, e i consumi sono continuati a crescere. Quasi la metà dei cereali coltivati nel mondo si trasforma in carne, negli Usa circa il 70%.

Per “fare” un kg di carne di maiale ci vogliono 6 kg di mais e soia. Qualcuno ha detto che la carne ormai, mettendo insieme combustibili, fertilizzanti e pesticidi necessari per l’allevamento industriale, potrebbe essere considerata un sottoprodotto del petrolio.

L’Università statunitense di Cornell calcolava che per produrre un kg di maiale ci volessero 28.000 chilocalorie, cioè l’energia contenuta in 4 litri di benzina. Ogni anno quindi un americano medio consuma più di 180 litri di benzina, trasformata in carne (senza contare i consumi dell´intera filiera). Lo stesso modello si sta diffondendo, con la crescita e il benessere a Paesi come la Cina: 1.300.000.000 di persone che sognano di mangiare il maiale almeno una volta al giorno. In Cina nel 1978 solo il 7% dei cereali era usato per alimentare gli animali, nel 1990 la quota era già del 20%, è ulteriormente salita in questi anni di crescita di consumi e produzione e a questo c’è da aggiungere le quote crescenti che vanno ai biocarburanti.

Poi ci sono i costi energetici dell’imballaggio, del trasporto, dell’immagazzinamento e della cottura della carne che è la merce al primo posto per consumo di energia per kg di prodotto servito. Per un kg di maiale ci vuole 15 volte più energia della frutta o delle verdure fresche.

Per coltivare i cereali destinati a far crescere i maiali occorre molta acqua: più di 1.600 litri per ogni kg di maiale, spesso ottenuta emungendo falde idriche oltre la loro capacità di ricarica.

Secondo stime Usa l’impatto per coltivare il cibo per i suini sarebbe ancora maggiore: 3.200 litri per un kg di maiale, negli anni ’90 si parlava già di 720 litri di acqua dolce che ogni giorno ogni americano investiva per avere la bistecca o le costolette.

Inoltre negli Usa l’allevamento di bestiame, ora come si è visto tracimato nel Messico più economico e meno attento ai problemi ambientali, occupa circa la metà del territorio destinato a foraggio o cereali, provocando un’erosione di terreno fertile devastante: si calcola che per ogni kg di carne prodotta se ne vadano via 5 kg di terriccio.

Un modello che gli Stati Uniti hanno esportato in gran parte del Sudamerica, con impatti su fauna e flora conosciuti ed evidentissimi.

Gli allevamenti di maiali ormai sono enormi fabbriche di carne con migliaia di animali a stretto ed artificiale contatto tra di loro, spesso completamente meccanizzati, con interventi umani limitati, distributori automatici di cibo e canali di scolo che trasportano via le deiezioni.

Una produzione di carne in automatico che ha bisogno di molta energia ed ha come effetto una colossale e concentrata produzione di rifiuti degli allevamenti industriali di pollame e suini che inquina fiumi, falde freatiche e aree marine costiere e rappresenta un grave problema di smaltimento o riutilizzo, anche se negli ultimi anni le nuove tecnologie, anche di recupero energetico, hanno permesso di ridurli.

Se i 6 miliardi di abitanti del pianeta mangiassero ognuno tanta carne quanto un americano degli anni ’90 ci vorrebbe più meno l’energia quanto tutto il mondo ne consuma per tutti gli scopi e più del doppio dell’attuale produzione di cereali. Il rischio è che per alimentarsi di carne l’uomo distrugga il pianeta ed ora scopriamo che quel modello ha notevoli controindicazioni anche per la nostra salute.

Sarebbe necessario che i Paesi ricchi adottassero una dieta a basso contenuto di carne e che quelli in rapido sviluppo moderassero le loro richieste (per i poverissimi la carne rimane un lusso…), invece anche le già virtuose diete mediterranea e giapponese sono diventate sempre più ricche di carni.

La crisi della peste suina, dopo la mucca pazza e l’influenza aviaria, sembra uno dei tanti segnali che ci arrivano dell’insostenibilità dell’allevamento industriale e della sovra-produzione di carne e del sovra-pascolo, di uno snaturamento e di un’artificializzazione del bestiame che abbiamo da sempre usato come cibo e che sta perdendo ogni naturalità, che ci è sconosciuto nella sua integrità e nei suoi costi ambientali, almeno finché un’epidemia non mette a rischio la nostra specie e scopriamo che quelle braciole e bistecche, in quell’asettico vassoio di polistirolo che prendiamo dal fresco scaffale del supermercato, hanno dietro una catena che ha trasformato gli animali in macchine per produrre carne… e qualche volta virus e prioni.

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