[21/04/2009] Parchi

Le buone pratiche per difendere biodiversità ed economia

LIVORNO. Agricoltura, allevamento, legname e pesca, acqua, legna da ardere, mezzi di sussistenza… il benessere del genere umano è indissolubilmente legato alle risorse naturali ed ai benefici che forniscono gli ecosistemi, ma troppo spesso l’uomo se ne scorda. Eppure, proteggere e ripristinare gli ecosistemi può essere vantaggioso economicamente ed è un elemento essenziale per una strategia a lungo termine per aiutare le comunità umane a difendersi dagli effetti dei cambiamenti climatici e dall’esposizione alle calamità naturali. Considerando che la scelta di infrastrutture pesanti, come le dighe a mare e gli argini fluviali, sarebbero molto costose e richiederebbero una continua manutenzione, e che comunque spesso queste infrastrutture non sono risultate in grado di proteggere davvero coste e territori interni dagli eventi meteorologici più estremi, si stanno cercando alternative e qualcuno comincia a pensare che la tutela e il recupero di "infrastrutture verdi", come le zone umide costiere e le foreste di mangrovie e le barriere coralline, potrebbero essere più efficaci ed economiche rispetto ai costi per la protezione ”artificiale” di grandi zone costiere, richiederebbero meno manutenzione, salvaguarderebbero i sistemi viventi. Ed oltre a beneficiare della biodiversità, dei sistemi costieri integri fornirebbero più cibo, materie prime e mezzi di sussistenza alle popolazioni locali.

Secondo alcuni studi un aumento di 2 gradi della temperatura media globale potrebbe comportare danni economici valutabili in 8 miliardi di dollari all’anno entro il 2100, ma pochissimi prendono in considerazione i costi della perdita della biodiversità a causa dell´impatto dei cambiamenti climatici. Uno studio della World Bank for Fiji rivela che il degrado delle barriere coralline imputabile ai cambiamenti climatici dovrebbe costare a questo arcipelago dell’Oceania tra i 5 ed i 14 milioni di dollari all’anno entro il 2050, a causa della perdita di valore della pesca, del turismo e degli habitat. In Israele la perdita di benessere associata ad un lieve cambiamento del clima della fascia mediterranea sarebbe di 51,5 milioni di dollari, di 85,5 milioni se si verificassero condizioni semi-aride e di 107,6 milioni di euro se si verificassero condizioni di siccità e perdita di pascoli. La perdita di entrate nelle aree protette africane a causa degli impatti del cambiamento climatico è stimata in 74,5 milioni di dollari entro il 2100. L’impatto negativo dei cambiamenti climatici sulle barriere coralline nel parco nazionale marino di Bonaire nelle Antille Olandesi, potrebbe portare ad un calo delle entrate procapite all’anno tra i 45 e i 225 dollari solo per il calo del turismo subacqueo dovuto alla diminuzione delle specie di pesci e coralli.

Al secondo meeting dell’Ad hoc technical expert group on biodiversity and climate change (Ahteg) in corso ad Helsinki sono stati presentati diversi esempi di buone pratiche già in atto. In Vietnam la Croce Rossa internazionale ha dato il via nel 1994 alla piantumazione di mangrovie come misura preventiva contro le catastrofi costiere. Nel 2002 era stato ripiantumato un mangrovieto di 12.000 ettari per un costo di 1,1 milioni di dollari ma questo aveva prodotto una diminuzione del costo della manutenzione delle dighe di 7.3 milioni di dollari e nel 2000 ha efficacemente protetto le zone interne dal tifone Wukong, inoltre grazie alla piantumazione di mangrovie è stato recuperato un ambiente adatto alla raccolta di frutti di mare, uno dei maggiori mezzi di sussistenza per le popolazioni locali. In Malaysia si stima che il valore delle mangrovie esistente per la protezione costiera sia di 300.000 dollari per chilometro di costa, per il fatto che evitano i costi di installazione di strutture artificiali che fornirebbero la stessa protezione al litorale. L’esempio più vicino e drammatico è quello della Maldive, dove il degradi delle barriere coralline intorno alla capitale Malé ha costretto a costruire frangiflutti artificiali per un costo di 10 milioni di dollari al chilometro.

Negli Usa le zone umide costiere, agendo come "argini orizzontale" riducono gli effetti devastanti degli uragani sulle comunità costiere. Un’analisi economica sulle zone umide e le perdite economiche per i danni provocati dal 1980 negli Usa, evidenzia che la perdita di un ettaro zone umide produce un aumento medio di 33.000 dollari di danni per ogni tempesta.

Il documento in discussione all’ Ahteg sottolinea che «La salvaguardia e l´uso sostenibile della biodiversità possono contribuire a rafforzare la sicurezza alimentare, fornendo una serie di prestazioni accessorie, quali la riduzione del degrado dei suoli e della desertificazione, il miglioramento della resistenza di sistemi vegetali e animali e garantisce l´accesso alle fonti di proteine selvatiche quando l’agricoltura fallisce». Anche qui gli esempi non mancano.

Nella piccola Gibuti la protezione della foresta ha evitato la carestia, fornendo una riserva temporanea per il pascolo, per un periodo di cinque anni di siccità che dovrebbe presentarsi in futuro vcon maggiore frequenza visto la modifica del regime delle piogge. L’Ateg sottolinea che «Gibuti ed altri paesi africani hanno bisogno di aiuto per garantire e ampliare tali aree, in previsione di più frequenti e intensi periodi di siccità». La Climate change framework strategy della Banca mondiale mette in guardia sugli effetti che lo sproporzionato impatto del cambiamento climatico sui poveri e sulle comunità vulnerabili potrebbe avere sullo sviluppo e il progresso, portandolo indietro di decenni in vaste aree del pianeta, trascinando intere comunità umane nella povertà. La soluzione migliore per evitare questo dramma è ancora la protezione e il ripristino di ecosistemi sani, che sono più resistenti agli impatti dei cambiamenti climatici, basate su strategie ecosistemiche di adattamento che possono contribuire a garantire la costante disponibilità e l´accesso alle risorse naturali, essenziali perché le comunità locali possano avere il tempo necessario ad adattarsi alle nuove condizioni imposte dal cambiamento climatico.

Alcune comunità locali hanno già avviato strategie che riguardano la governance locale e la partecipazione diretta all’adeguamento al cambiamento climatico. Nella Kimbe Bay, in Papua Nuova Guinea, i principi della resilienza della barriera corallina sono stati applicati nella progettazione di una rete di aree marine protette in grado di sopportare l´impatto del riscaldamento degli oceani e di continuare a fornire cibo e altre risorse marine alle comunità locali. Un approccio innovativo che è stato “copiato” in altri luoghi, come l’Indonesia o nelle barriere coralline dei Caraibi.

In Africa australe, il valore dell’industria turistica nel 2000 era di 3,6 miliardi di dollari, ma l’ Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) dice che tra il 25 e il 40% dei mammiferi saranno in via di estinzione a causa del cambiamento climatico. Per questo la Strategia nazionale per i cambiamenti climatici del Sudafrica prevede interventi per la protezione di flora, fauna e della biodiversità marina, nel tentativo di non far avverare queste previsioni che provocherebbero un calo di redditi diffuso.

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