[14/04/2009] Monitor di Enrico Falqui

Crolli e macerie (2)

FIRENZE. Nelle grandi pianure europee, dove si sviluppa la grande metropoli diramata e diffusa in altrettante conurbazioni lineari, che come i rizomi di una pianta, tendono a stabilire “nuove connettività” urbane, si consuma un processo “evolutivo” della città che ha forti equipollenze con la dinamica di sviluppo degli ecosistemi naturali.
Anche in questi territori desolati, che costituiscono i margini della nuova metropoli che si estende con un disegno spesso non pre-ordinato, senza alcuna attenzione verso la morfologia urbana o verso la geometria delle sue architetture, si scatena una vera e propria “lotta per la sopravvivenza” che genera processi di adattamento o di selezione naturale degli edifici e dei loro materiali costitutivi, dei quartieri dormitorio e dei nuovi ghetti urbani, delle strade e dei marciapiedi, dei negozi e dei servizi.

I quartieri urbani influenzati da queste “mutazioni accidentali” si sono anch’essi spesso adattati a svolgere nuovi ruoli funzionali a seguito dell’insorgere di particolari opportunità d’uso dello spazio pubblico, precedentemente non previste.
Ad esempio, l’uso prevalente dell’automobile, come vettore di mobilità all’interno dello spazio urbano rispetto ai vettori “pubblici” di mobilità, può essere considerato come induttivo di una “mutazione accidentale” della città contemporanea, che ha adattato a questi “bisogni” e alla domanda di mobilità privata, spazi aperti, piazze storiche, parchi urbani e aree strategiche della città.

In realtà, questo adattamento non era (né è attualmente) scontato, né tantomeno privo di alternative (bus e filobus, metropolitane e tramvie, piste ciclabili e pedonali); è proprio questa osservazione che ci permette di capire come le mutazioni avvenute nel corso del passaggio dalla “città fordista” (seconda rivoluzione industriale) alla “città contemporanea globale” (terza rivoluzione industriale) siano il frutto di un processo evoluzionistico, della cui comprensione non è mai stata riconosciuta né l’utilità, né la necessità.
Eppure, nella storia dell’architettura del ‘900, non è stato sempre così.

Frank Lloyd Wright così definiva le relazioni tra progetto d’architettura e Natura: “…Tu devi leggere nel libro della Natura. Quello che noi dobbiamo conoscere sull’architettura organica non si trova sui libri. E’ necessario ricorrere alla Natura con la N maiuscola per avere un’educazione. E’ necessario imparare dagli alberi, dai fiori, dalle conchiglie, oggetti che posseggono verità di forma che segue la funzione. Se ci fermiamo li, allora sarebbe semplice imitazione. Ma se scaviamo abbastanza a fondo da scoprire i principi che li sottintendono alla base, noi arriviamo ai segreti della forma connessi al motivo che fa di un albero un edificio e di un edificio un albero.
…Per architettura organica io intendo un’architettura che si sviluppa dall’interno all’esterno in armonia con le condizioni del suo essere, distinte da qualcosa di esterno, applicato, superimposto.”

In questa riflessione di Wright è contenuta , in una fase assolutamente sperimentale, l’idea che il processo evolutivo della Natura possa ispirare la forma dell’architettura dando ad essa una “proiezione”del progetto nella stessa direzione delle successioni ecologiche che caratterizzano le fasi seriali del processo evolutivo.

(continua - 2)

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