[18/03/2009] Comunicati

La green economy tra culto dell´ipertrofia e sindrome Banana

FIRENZE. «Fare o non fare, questo è il dilemma. Se sia più nobile, per la mente, soffrire i dardi e le frecce dell’avversa fortuna, o alzare le braccia, davanti a un mare di problemi, e risolverli grazie al combatterli»... si, in realtà la versione di Shakespeare del monologo dell’Amleto parlava del dilemma tra «essere e non essere», non tra «fare e non fare».

Ma il dilemma, oggi e qui, è questo: da una parte un modello di sviluppo connaturato da quello che Antonio Cianciullo ha definito su Repubblica del 13 marzo come «il culto dell’ipertrofia». Dall’altra parte una serie di piattaforme per un modello alternativo che però troppo spesso – almeno finora – sono state connotate, più che dalla sindrome Nimby, da una vera e propria “sindrome Banana”, espressione molto eloquente che descrive l’evoluzione estrema della politica del “non nel mio giardino”, ed è l’acronimo di “build absolutely nothing anywhere near nothing”, cioè non costruite proprio niente da nessuna parte vicino a niente.

Entrambi i modelli conducono – a lungo termine – all’implosione del sistema sociale: l’uno per dissanguamento, tramite la suzione di risorse ambientali e sociali che vengono trasformati nei globuli rossi della crescita economica illimitata e “a prescindere”. Un modello “vampirico”, quindi, peraltro riferito ad una forma di auto-cannibalismo perchè succhia lo stesso suo sangue. L’altro modello, che si chiami modello Nimby o modello Banana, ha una impostazione dello sviluppo che si può definire “anemica”, una impostazione che non comprende il legame inscindibile che c’è tra produzione di ricchezza e sostenibilità dello sviluppo.

Una impostazione, quindi, che pretende di produrre qualità, ma non quantità. Una impostazione che ai continui e illimitati “si” dei profeti della crescita infinita ha saputo rispondere solo con dei donchisciotteschi “no”.

E il problema non sta nei “no”, anzi è innegabile che il perseguimento della sostenibilità passi anche attraverso quel recupero di un “senso del limite” che invece il modello predominante vede come il fumo negli occhi: «limiti? Ma quali limiti, qui c’è da guadagnare, da produrre, da urbanizzare, e da fare figli che produrranno e guadagneranno, e urbanizzeranno», dice il buon sviluppista. E, davanti a questo modello, è spontaneo contrapporre un solido, robusto e urlato “no”.

Ma che sia “spontaneo” non significa che sia “utile”. Nel paese arretrato e provinciale in cui viviamo, nel paese degli omosessuali che “guariscono” grazie all’alleanza tra il Papa e Povia, nel paese dove ancora le persone credono di vedere ambientalisti che gettano vipere da elicotteri con il logo del Cigno di Legambiente, è forse utile procrastinare i vecchi pregiudizi verso il popolo del no? Beh, no.

E quindi, poichè l’orizzonte da inseguire non è la lotta contro i mulini a vento (e, a parte il richiamo a don Chisciotte, l’espressione non è casuale davanti alle scuse assurde che spesso vengono addotte da chi è contrario pure all’eolico, anche se collocato accanto a una discarica), ma combattere contro quel sistema che vuole produrre ricchezza a prescindere dalla sostenibilità dell’impatto che la produzione di questa ricchezza comporta, ben venga chi ad ogni proposta per una nuova strada sa controbattere con la proposta per una nuova strada ferrata. Ben venga chi davanti a progetti per miliardi di euro per nuovi ponti tra isole e continente sa sostenere proposte alternative che prevedano di usare gli stessi soldi (gli stessi, non un euro di meno) per riparare mille ponti locali. Ben venga chi davanti a cifre relative alle prospettive occupazionali di un progetto sbagliato sa proporre un’alternativa di progetto che persegua gli stessi obiettivi occupazionali, non un posto di lavoro di meno.

E’ quindi da salutare con entusiasmo l’impostazione che ha caratterizzato (e conseguentemente il modo in cui è stata presentata dai giornali locali) la conferenza sulla Green economy che si è tenuta sabato scorso a Firenze. Un evento in cui – ed è rarissimo nel settore – sono state pressoché assenti le suggestioni che disegnavano una nuova Arcadia, e il tempo destinato agli interventi è stato impiegato quasi esclusivamente per l’esposizione di progetti che allo stesso tempo puntassero sì alla tutela, sì alla conservazione della bellezza, della biodiversità, del paesaggio e della coesione sociale, ma anche al numero di occupati e al numero di punti decimali di Pil che l’attuazione di questi progetti possono causare. Il Pil è un indicatore grossolano? Certo, ma sapere parlare il suo linguaggio è necessario per ottenere la giusta visibilità dai media, la giusta considerazione da parte del settore produttivo, e quindi in prospettiva per fare uscire il dibattito su Pil e indicatori di benessere e di sviluppo alternativi dalla ristretta nicchia della stampa di settore.

E i giornali generalisti del giorno dopo hanno capito qual era il messaggio, e lo hanno riportato correttamente: una proposta (anzi, decine di proposte concrete) per una economia sostenibile, con annessi i dati sulle conseguenti prospettive occupazionali e sull’annesso sviluppo economico. Non “ecco i nuovi sogni illusori” era il meta-messaggio dei titoli sui media locali, ma “ecco finalmente una reale prospettiva di uscita dalle crisi intrecciate che stanno strozzando il sistema”. Una proposta che alle ideologie sviluppiste e cementificatorie che oggi governano il paese sa contrapporre un concreto modello alternativo, invece di contrapporre una velleitaria scrollata di spalle. Siamo solo agli annunci è vero, ma è già molto per questo Paese, che potrebbe anche cominciare a imparare la coerenza nel portare fino in fondo le proprie promesse, un po’ come sta facendo dall’altra parte dell’oceano Obama.

Saper sognare è patrimonio di molti, ma saper perseguire con coerenza la realizzazione dei sogni e delle promesse nel mondo reale è invece appannaggio di pochi. Ovviamente però il senso del limite deve rimanere parte della prospettiva politica dell’ambientalismo, anche attraverso la conservazione della capacità di dire – senza paura, senza complessi di inferiorità - “no”: il rischio, altrimenti, è che alla perdita di radicalità nell’azione politica corrisponda una perdita di fermezza nei principi, e questo non deve avvenire. Il cambio di paradigma culturale, produttivo ed economico rispetto al modello tuttora (largamente) predominante deve comunque restare faro illuminante della sostenibilità, e se questa linea Maginot non viene difesa con fermezza il rischio è che qualsiasi progetto di sviluppo, anche quello più astruso, possa essere battezzato “verde”, magari tramite una bella passata della viscida vernice con cui si attua il green-washing. Abbasso il Nimby, abbasso la sindrome Banana, e viva la green-economy, quindi: ma che sia “green” davvero.

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