[09/03/2009] Aria

Maracchi: la doppia sfida climatica ed economica parte dalla Toscana

FIRENZE. Ormai in molti, anche tra i più conservatori dei politici e degli economisti, concordano sul fatto che non usciremo dalla crisi ragionando secondo gli stessi paradigmi che l’hanno causata. L’insostenibilità del modello di sviluppo finora dominante è ormai manifesta non solo nel drammatico impatto sociale e ambientale ad esso connaturato, ma anche nel radicamento e nella capillare diffusione che caratterizzano l’attuale fase di crisi. L’unica risposta strutturale convincente sembra essere una reale riconversione dell’economia e del sistema produttivo verso la sostenibilità, cioè quella “green economy” che da sempre più parti viene invocata.

Una sfida difficile. Ma anche l’unica soluzione che permetta, se perseguita, di sviluppare un’economia e un sistema produttivo che siano sostenibili, in un momento in cui le risposte che giungono dal governo, dalle infrastrutture alla prossima legge edilizia, sembrano essere improntate solamente ad una concezione obsoleta dell’intervento pubblico: quella che intende rimettere in moto l’economia attraverso un nuovo saccheggio del suolo e del capitale naturale, peraltro senza garanzie certe di riuscita.

E questa sfida può essere raccolta con maggiore agilità da quelle realtà regionali, come la Toscana, dove il mix di economia “tradizionale” ed economia “dolce” è stato finora realizzato con buoni risultati, come ad esempio testimonia il sempre maggiore sviluppo della filiera del biologico o i dati relativi allo sviluppo del turismo sostenibile.

Una Toscana in prima linea, quindi, dove le condizioni sociali, politiche, territoriali e climatiche favoriscono il percorso di conversione del sistema socio-economico. Abbiamo sentito, a questo riguardo, il parere di Giampiero Maracchi, ordinario di Agrometeorologia e climatologia dell’università di Firenze e direttore del centro di Bio-meteorologia (Ibimet) del Cnr di Firenze. Le ricerche del centro Ibimet sono state, negli anni scorsi, tra le prime a porre sullo stesso piano, con un approccio interdisciplinare, tematiche che precedentemente erano trattate separatamente, come la meteo-climatologia, la salute, lo sviluppo rurale inteso anche negli aspetti socio-economici. Maracchi interverrà sabato 14 prossimo in un convegno a Firenze dedicato alla green-economy, ed è proprio dall’argomento che tratterà nel suo intervento («la doppia sfida climatica ed economica») che vogliamo partire.

Professor Maracchi, perchè una “doppia sfida climatica ed economica”?
«Perché esiste una serie di segnali negativi (soprattutto in ambito ambientale e climatico) riferiti all’impatto del modello economico che ha avuto piede negli ultimi 200 anni. Un modello che aveva anche un senso in passato, ma che oggi non lo ha più. Tutti questi segnali mettono in evidenza che, dove non c’è più corrispondenza tra moneta e beni materiali, la cosa sfugge di mano.
La questione è quindi relativa ad un doppio binario che la società deve percorrere: da una parte l’economia “globale”, dall’altra l’economia “leggera”, intesa questa come un’economia più distribuita, meno concentrata, più vicina al territorio e alla gente».

Quali sono a suo parere i più significativi elementi di divergenza tra i due modelli?
«L’economia globale porta sostanzialmente a due sole classi: i ricchissimi, e quelli “abbastanza indigenti”. La differenza fondamentale è tra “concentrato” e “distribuito”, e il quesito è se sia possibile combinare questi due aspetti: naturalmente alcuni ambiti del sistema produttivo (es. la filiera dell’acciaio) resteranno in buona parte immutati, non penso ad un ritorno al passato. Penso invece che serva andare avanti rispetto ad un modello che ha dimostrato i suoi limiti, sia con l’impatto climatico ed ambientale, sia anche in riferimento a quanto sta avvenendo in ambito economico-finanziario».

La doppia faccia della crisi, cioè…
«La crisi è una situazione negativa, ma contiene in sé elementi positivi. Le persone stanno cominciando ad essere più sensibili sul tema».

Le “persone comuni” stanno sensibilizzandosi, e questo è significativo ma non è sufficiente. Vede questa sensibilizzazione anche nei decisori politici?

«A livello di decisori politici, finora, questa evoluzione non c’è stata, forse perchè le discussioni della politica sono legate più all’oggi, mentre questo tema va affrontato con un approccio più filosofico, di prospettiva».

Quali, secondo lei, le soluzioni?
«Le soluzioni sono svariate, e ognuno ha le sue proposte. Prendiamo la questione delle esternalità inerenti ai prodotti, di cui si parla da 20 anni: ad esempio, se io importo lana via nave dall’Australia, e non computo i costi relativi alle emissioni, all’inquinamento marino, ecc, ecco che l’operazione è conveniente. Se si computassero, invece, i costi totali (compresi quelli ambientali), dall’Australia la lana non arriverebbe.
E attenzione: non sono né un autarchico né un protezionista. Il protezionismo ha la caratteristica di tutelare solo gli interessi di alcune categorie economiche e sociali, e di danneggiare le altre. Il problema delle esternalità, invece, non c’entra col protezionismo, perchè va a tutelare tutte le risorse del pianeta. Se il problema non viene affrontato adeguatamente, il rischio è che in prospettiva il manufatturiero scompaia: e noi italiani a quel punto cosa faremmo, diventeremmo tutti commercianti e commessi?

Questi due modelli economici e sociali di cui abbiamo parlato non si escludono a vicenda, comunque: essi possono coesistere, come ad esempio sta già avvenendo per il comparto agro-alimentare. Ad esempio, pensiamo al caso della plastica prodotta da derivati agricoli e non da idrocarburi fossili. I costi per ora sono maggiori, ma è proprio questo il punto: chi ha la possibilità di prendere decisioni, si preoccupi di studiare questi problemi e individuarne le soluzioni, più che di fare politica sui giornali».

Sabato 14 marzo a Firenze sarò proprio la “green economy” ad essere oggetto di un convegno che vedrà la partecipazione di molti tra i principali esponenti della politica e del sistema produttivo toscano. Che significato ha oggi la “green economy” in Toscana, e cosa significherà in futuro?

«Riguardo a questo nuovo modello economico e produttivo la Toscana parte avvantaggiata. Ad esempio, ancora abbiamo i distretti: del cuoio, del marmo, del tessile, dell’oreficeria, dell’abbigliamento. E’ nei distretti che può prendere forma questo tipo di produzione, ed è nei distretti che il pubblico deve intervenire.

Per sviluppare sia gli aspetti legati all’efficienza energetica, sia quelli inerenti allo sviluppo di alcune energie finora sottovalutate, abbiamo pensato ad un progetto relativo ai “distretti energetici rurali”, basato sull’uso di combustibili come la legna, sia proveniente da scarti di lavorazione, sia proveniente da foreste trattate con pratiche selvicolturali sostenibili. In Toscana abbiamo 700.000 abitanti in zone rurali, e per chi vive in queste realtà l’utilizzo di queste tecnologie è più agevole per evidenti motivi logistici. Abbiamo calcolato che, utilizzando anche il cippato e i pellet, e attuando una rete distributiva che coinvolga potenzialmente anche i consorzi agrari, potremmo arrivare a una riduzione delle emissioni di gas serra di circa il 30%».

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