[16/02/2009] Monitor di Enrico Falqui

Funere Mersit Acerbo

Dal prossimo mese la rubrica Monitor diventa mensile. Il prossimo appuntamento è quindi per lunedì 2 marzo.

FIRENZE. Il dolore per la morte di un figlio giovane è già per due genitori un anticipo della fine. La consapevolezza che quella vita si è tragicamente spezzata segna, agli occhi di una madre e di un padre, una ferita mortale non solo per le leggi della natura, ma spesso anche nel rapporto con la fede.

“Perché proprio nostro figlio?”si sono chieste le madri di quei sette operai, bruciati vivi dentro l’inferno di fuoco che li ha avvolti alla Thyssen di Torino, arsi come torce per soddisfare il dovere e la responsabilità che ciascuno di essi provava verso il proprio lavoro.
“Perché proprio a nostra figlia?” si sono chiesti il padre e la madre di Eluana, quel drammatico giorno in cui i medici dell’Ospedale di Lecco emisero il tragico verdetto di irreversibilità dello stato vegetativo in cui si trovava Eluana?

Per molti di quei sette operai lavorare alla Thyssen era sicuramente anche “l’unica soluzione” per dare un futuro a sé stesso e ai familiari che condividevano il loro percorso di vita. Mentre, in passato, i nostri nonni avevano la consuetudine di allevare i propri nipoti ricordando loro che “il lavoro nobilita l’uomo”, nell’epoca in cui viviamo, conviene invece chiedersi se “il lavoro nobilita l’operaio”, dal momento che, in Italia, uccide con tanta inusitata frequenza e con tale tragico orrore.

Conviene chiederselo, oggi, perché al dolore per la morte dell’individuo, si aggiunge l’intollerabile ferita creata dalla palese indifferenza per la vita umana da parte di chi, erogando un salario, si ritiene assolto da ogni altro tipo di responsabilità verso la sicurezza di chi lavora con dedizione e sacrificio per il benessere di tutta la collettività.

Quindicimila morti negli ultimi dieci anni, quattro al giorno: un vero e proprio bollettino di guerra che porta l’Italia al primo posto in Europa per cause di morte da infortuni sul lavoro. Mentre, nello stesso periodo di tempo, in Germania il numero di vittime si è quasi dimezzato ed in Spagna ridotto del 35%, in Italia si è ridotta soltanto la spesa per indennizzi per gli infortuni e gli incidenti gravi sul lavoro, così che la vita di un operaio vale 500.000 euro di indennizzo e il titolare di un’azienda come la Thyssen, se condannato per omicidio colposo, non sconterà mai più di due anni.

Le chiamano “morti bianche”, nonostante che questa definizione sia stata scientificamente usata per le morti dei nascituri o dei neonati, proprio per alludere all’assenza di una mano direttamente responsabile dell’incidente, quasi che “uscire di casa la mattina per andare al lavoro e non farne più ritorno fosse paragonabile alla morte di un neonato ancora nel grembo della madre che soffoca perché strozzato dal cordone ombelicale che lo lega a lei.

Anche Eluana Englaro era uscita di casa, per motivi diversi dai sette operai della Thyssen, ma anch’essa non vi ha più fatto ritorno, trascorrendo 17 anni nel vortice della sindrome di Kretschmer,dalla quale, dopo dieci anni di stato vegetativo permanente,uno dei più famosi neurologhi a livello mondiale, B. Jennet ci informa sulla rivista specializzata “Lancet neurology”di questo mese, non vi sia alcuna possibilità di ritorno.

Eluana, come ci ha raccontato infinite volte suo padre Beppino, era una splendida ragazza di vent’anni, decisa a inseguire i propri sogni e a realizzarli; non era stata informata “precedentemente” a quale destino sarebbe andata incontro, in assenza di una precisa legge nazionale sul testamento biologico, nonostante che avesse lucidamente espresso al padre la sua determinazione a non voler accettare “cure mediche” violatrici del suo corpo e della sua volontà.

Il padre di Eluana, nei lunghi 17 anni di stato vegetativo permanente di sua figlia, non ha cercato scorciatoie all’estero, per soddisfare le volontà acclarate di Eluana, nel caso che il destino l’avesse posta di fronte alla situazione di dover scegliere tra “ la tutela della sacralità della vita” ( a qualunque prezzo e in ogni caso) e la “tutela della libertà individuale” di scegliere il tipo di cura alla quale sottoporsi, norma, che, come è noto, è tutelata dalla nostra Costituzione.

Analogamente, nessun tribunale potrà mai rivendicare la difesa della “sacralità della vita umana” nelle proprie sentenze ufficiali, come principio al quale dovevano ispirarsi i proprietari della Thyssen per cercare di garantire ai propri operai, oltre ad un salario decoroso, l’incommensurabile garanzia di sicurezza per la loro vita e la serenità del futuro per i rispettivi familiari delle sette vittime dell’acciaieria piemontese.

Anzi, proprio in questi giorni, durante l’udienza nella quale gli avvocati della difesa dell’Azienda Thyssen hanno chiamato alcuni dei primi soccorritori a testimoniare, gli stessi difensori hanno obbligato i familiari delle vittime ad uscire dall’aula, per evitare che potessero ricevere forti emozioni dalla vista di foto macabre dei loro congiunti, così come li videro coloro che prestarono il primo aiuto.

Anche il padre di Eluana, non ha mai ceduto alla tentazione di far vedere a milioni di telespettatori italiani in quali condizioni fisiche fosse ridotta dopo 17anni di stato vegetativo permanente. Solo quando la procedura legale di distacco dell’alimentazione e dell’idratazione forzata era entrata in azione, aveva concesso al presidente della Repubblica Napolitano e al Presidente del Consiglio di andare a vederla.

Nobile ed autentica espressione di pietà quella di concedere alle massime cariche dello Stato la liceità di “vedere con i propri occhi” quale fosse stato il processo di decadimento di un corpo, “soggiogato da 17 anni di alimentazione ed idratazione assistita e medicalizzata, senza che la sua corteccia cerebrale potesse elaborare alcun processo cognitivo”, come affermò alcuni anni fa Peter Singer sulla rivista Bioetica.

Cinica ed immorale indifferenza verso la sacralità della vita, da parte degli avvocati difensori della Thyssen e anche da parte di chi ha accolto tali richieste, poiché la pietà, in questo caso come nel precedente, avrebbe favorito la presa di contatto reale con le conseguenze della mancata azione di prevenzione e manutenzione degli impianti e dei mezzi apprestati dalla Thyssen per la sicurezza dei lavoratori.

Cinica ed immorale indifferenza verso la sacralità della vita quella di chi ha inflessibilmente esclamato “Show must go on”, disponendo che l’edizione settimanale del “Grande Fratello” non poteva essere oscurato in segno di lutto per una sera, cedendo ad Enrico Mentana la facoltà di svolgere un’edizione speciale di “Matrix”sul caso e la morte di Eluana Englaro.

Eluana e diversi operai della Thyssen erano nell’età giovanile più intensa e più aperta al futuro, anche se le prospettive di successo erano radicalmente diverse. Erano vite ancora “acerbe”, ma dotate di una ricchezza sconosciuta alla maggior parte delle famiglie ricche e potenti che “governano” l’Italia, in quest’epoca barbara: la ricchezza di essere amati intensamente dai propri cari, durante la loro breve vita e di divenire dei “simboli e dei riferimenti” per i diritti civili e sociali nel nostro Paese, dopo che sono morti.

Nell’antichità, la morte non solo dei bambini, ma anche quella dei giovani, in procinto di assumersi le responsabilità dell’età adulta, veniva definita intempestiva , perché qualsiasi ragazzo morisse prima dei suoi genitori veniva ritenuto vittima di una morte prematura (acerba, appunto). Per questo Virgilio descrive Enea, appena entrato nell’Ade, come felice di aver incontrato, per primi, tutti quei giovani che hanno avuto interrotta la loro vita, spezzati i loro sogni e le loro speranze, travolti da un fato avverso.

Ora che i clamori dei media e delle tante bestemmie ascoltate sono state oscurate dal loro ingresso nell’Ade, sentiamo il dovere di ringraziare Eluana e i giovani operai della Thyssen soprattutto per l’insegnamento e l’enorme patrimonio di umana civiltà che ci hanno lasciato proprio nella fase di tragico abbandono della realtà terrena augurando a noi e ai loro cari di rivederli per primi, incoronati dalla luce divina.

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