[16/02/2009] Energia

Dopo 4 anni il protocollo di Kyoto resta un obiettivo possibile: ecco perché

LIVORNO. In occasione del quarto anniversario della ratifica in Italia del protocollo di Kyoto, un rapporto della Fondazione per lo Sviluppo sostenibile dà segnali preoccupanti, ma allo stesso tempo interessanti per il nostro Paese. Giudicato, l’accordo internazionale, una condizione necessaria ma non sufficiente a frenare l’incremento di anidride carbonica, il rapporto della fondazione guidata da Edo Ronchi (Nella foto), ministro dell’ambiente ai tempi della firma del patto di Kyoto per il clima, analizza i dati e sottolinea che in 16 anni le emissioni di Co2 sono aumentate da 20,95 miliardi di tonnellate nel 1990 – anno di riferimento – a 27,89 miliardi nel 2006: un incremento che sfiora i 7 miliardi di tonnellate.

Le riduzioni delle emissioni dei paesi del protocollo (pari a oltre 2 miliardi di tonnellate di C02 equivalenti nel periodo 1990-2006) non sono quindi bastate a cambiare il quadro mondiale.
Tre le cause dell’insuccesso: la debolezza della governance dell’ambiente globale, la mancata adesione e il mancato impegno alla riduzione delle emissioni degli Stati Uniti, il rapido e forte aumento delle emissioni dei Paesi di nuova industrializzazione.

Sulla prima delle cause si sottolinea l’assoluta mancanza di strumenti di operatività, di controllo e sanzioni efficaci sull’applicazione dei trattati, tanto che si indica la necessità per la nuova fase, quella del dopo Kyoto, di prestare molta più attenzione a questo aspetto. La mancata adesione al protocollo di Kyoto degli Stati Uniti ha non solo contribuito all’aumento delle emissioni di Co2 (nel 2006 le hanno aumentate del 16% rispetto al 1990), ma ha inoltre fornito un forte argomento (ribadito in tutte le Conferenze internazionali) ai Paesi di nuova industrializzazione per non frenare le loro emissioni.

Una parte notevole delle difficoltà e degli esiti insufficienti del protocollo di Kyoto sono imputabili quindi al mancato impegno della precedente amministrazione Usa e l’elezione del presidente Obama, fa radicalmente migliorare le aspettative per il nuovo trattato post-2012.

Il terzo motivo d’insuccesso riguarda una previsione che si è ribaltata nel corso degli anni: nel 1992, quando si cominciarono a stabilire le basi del protocollo le emissioni dei Paesi del cosiddetto annesso B (paesi Ocse più quelli delle economie in transizione, ex socialisti) rappresentavano il 62% delle emissioni mondiali, mentre quelle dei paesi non annesso B (quelli di nuova industrializzazione e i poveri) si attestavano al 38%. Nel 2007 la percentuale dei paesi dell’annesso B è scesa al 47%, mentre quella degli altri è salita al 53%. Pertanto nel prossimo trattato è necessario fissare obblighi anche per quei paesi che ne sono stati sino ad ora esclusi, ma ormai, emettono la quota principale. La ripartizione internazionale degli impegni per il clima non è quindi un problema di semplice soluzione per due ragioni: le emissioni storiche sono imputabili, per la gran parte, ai paesi industrializzati e le emissioni pro-capite restano molto differenziate (quelle di un cittadino statunitense sono il doppio di quelle di un europeo e il quadruplo di quelle di un cinese).

Secondo il rapporto della Fondazione, quindi, gli impegni di riduzione delle emissioni di gas serra dovrebbero restare ancora differenziati (maggiori per i paesi più industrializzati), ma sarà comunque indispensabile, associare a concrete e impegnative politiche di contenimento delle emissioni anche a quelli di nuova industrializzazione, a partire dalla Cina che ha ormai superato (in senso assoluto) le emissioni degli Stati Uniti.

Riguardo agli obietti al 2012, l’Unione europea (a 15) ce la farà a raggiungere l’obiettivo che ha sottoscritto di ridurre le proprie emissioni di gas serra dell’8% rispetto ai livelli di emissione del 1990. Anzi, le previsioni dell’Agenzia europea dell’ambiente indicano che l’Ue a 15 non solo raggiungerà l’obiettivo di Kyoto, ma lo supererà, raggiungendo una riduzione dell’11,3%. E anche l’Italia che è stata per anni al palo, ha invertito nel 2005 la tendenza e secondo i calcoli e le proiezioni della Fondazione, applicando i meccanismi del Protocollo di Kyoto – con le misure già in atto, con l’istituzione del Registro degli assorbimenti e con i meccanismi flessibili già operativi, arriverebbe a quota -5,4% (molto vicino quindi all’obiettivo del -6,5%) e con uno sforzo supplementare potrebbe anche raggiungerlo entro il 2012, anche se non come media del 2008-2012.

Le previsioni sono state effettuate ipotizzando che si verifichino alcune condizioni al contorno, ovvero che i consumi primari di energia mantengano lo stesso moderato trend di calo nell’industria, un calo più consistente nel civile e permanga almeno una stabilizzazione nei trasporti; i consumi elettrici non aumentino e si mantenga almeno il trend attuale delle emissioni di C02 al KWh; infine che una ripresa economica internazionale comporti anche una nuova rapida crescita dei prezzi del petrolio.

Questi fattori comporterebbero una diminuzione di 512 Mton di Co2, cui si devono aggiungere circa 12 Mton (mediamente 3 Mton all’anno a partire dal 2009) per effetto dell’incremento delle rinnovabili (conto energia e nuova incentivazione), dell’incremento dei certificati bianchi e le misure per l’efficienza energetica degli edifici e degli impianti civili e industriali.

Se poi si istituisse (come era previsto e per cui sono stati finanziati i fondi nella Legge finanziaria del 2007, poi abrogati in quella 2009 ) il registro degli assorbimenti di carbonio, così da essere regolarmente incluso nel conteggio, si avrebbe un ulteriore taglio di 10,2 Mton di C02.

Il computo, infine, delle riduzioni già acquisite col ricorso ai meccanismi flessibili, comporta ulteriori riduzioni pari a 3,42 Mton di C02 equiv. al 2012. La somma di queste riduzioni porterebbe al 2012, ad un totale pari a 489 Mton: cioè - 5,4% rispetto ai livelli del 1990, a fronte di un obiettivo di Kyoto di - 6,5%.

Anche gli impegni europei del pacchetto clima energia per l’Italia sono impegnativi ma non impossibili, secondo la Fondazione e potrebbero stimolare una consistente crescita degli investimenti, pubblici e privati, per la diffusione di tecnologie e di nuove produzioni, con una rilevante crescita dell’occupazione ovvero «produrre l’effetto complessivo di quel New Deal ecologico che molti Paesi stanno avviando per affrontare la crisi economica».

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