[29/01/2009] Comunicati

Per un nuovo ordine economico-ecologico

LIVORNO. Sono 50 milioni, nel peggiore dei casi, i posti di lavoro a rischio nell’anno in corso. Le stime più ottimistiche si fermano, invece, a “solo” 18 milioni. Sono le cifre presentate ieri dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) dell’Onu diretta da Juan Somavia e che si basano sulle previsioni di crescita globale dello 0,9% elaborata dal Fondo monetario internazionale a novembre. Ma che ieri sono state corrette al ribasso (0,5%) e che farebbero quindi modificare nella direzione più pessimistica anche le stime relative alla disoccupazione. Il che significa a sua volta che realisticamente le persone che si troveranno a non sapere più come mettere assieme il pranzo con la cena potrebbero oscillare davvero tra i 30 e i 51 milioni.

Uno scenario che impone politiche adeguate che per l’Ilo non rispondono ancora a quanto gli Stati, ognun per sé, stanno mettendo in campo: «è necessaria un’azione internazionale più decisa e coordinata per evitare una recessione globale» ha rimarcato infatti Somavia segnalando che occorrono anche «soluzioni creative» quali potrebbero essere quelle legate all’ambiente e alla protezione sociale.

Attenzione però –ammonisce il Direttore della World Trade Organisation- a non correre il rischio di indulgere in politiche protezionistiche per rispondere alla crisi, perché a suo vedere non porterebbero che ad un peggioramento della recessione. E attenzione- sottolinea Timothi Garton Ash in un suo commento dalle pagine de La Repubblica, a non guardare troppo con entusiasmo al rafforzarsi del nazionalismo economico. Segnali e ammonimenti che fanno riflettere sul fatto che, in un sistema complesso quale quello globalizzato, ragionare per categorie economiche lineari e opposte, non funziona.

Non funziona, infatti, per rivedere il modello che ha per totem la crescita, opporgli la decrescita. La dimostrazione empirica sono i dati citati dell’Ilo: una drastica sterzata al sistema attuale (che potrebbe anche portare dei benefici dal punto di vista del capitale naturale) porta come immediata risposta una disoccupazione insopportabile dal punto di vista sociale. Quindi la strada verso una maggiore sostenibilità, che deve passare senza dubbio dalla rivisitazione dell’attuale modello dei consumi, deve tenere conto di questi aspetti sociali, perché non sarebbe nei fatti sostenibile.
Ma non funziona nemmeno opporre all’attuale sistema basato sul liberismo il suo contrario, ovvero il protezionismo. Non funziona perché il sistema è ormai globale, e un simile atteggiamento non farebbe che dare vantaggi solo alla solita porzione di mondo (quello industrializzato) che è già in vantaggio a scapito dell’altra che attende il proprio turno e che ne subisce da sempre le conseguenze.

La strada o il binario (per usare una metafora cara a questo giornale che preferisce il sistema del ferro a quello della gomma) sembra allora quello di continuare a tenere in moto la locomotiva indirizzandola verso una riconversione di un modello economico e che deve tenere in conto che oltre alla crisi economica vi è in corso una crisi ecologica e sociale di dimensioni mai viste. Un nuovo modello di sviluppo così impostato non potrà allora prescindere dal dotarsi anche di una governance mondiale che stabilisca regole eque e riscriva una corretta «equazione del potere» come la chiamò due anni fa il presidente del Wef di Davos, Klaus Schwab.

Un nuovo ordine economico che sia «giusto, solido e stabile» l’ha definito proprio da Davos il presidente cinese Wen Jabao, che forse potrà cominciare a muovere i suoi passi nella giusta direzione grazie ad un ruolo che gli Usa di Obama potranno cominciare a svolgere. Certo ancora come egemoni di un sistema ora multipolare anziché unipolare come in passato, che è cosa ben diversa da una governance globale, ma che potrebbe almeno cominciare a viaggiare su quel binario che porta alla sostenibilità.

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