[26/01/2009] Monitor di Enrico Falqui

Quanto ci costa il mutamento climatico?

FIRENZE. Nel 1920 un economista inglese, Alfred Pigou, pubblicò un testo “L’economia del benessere”, che divenne rapidamente il manifesto di una scuola di pensiero che si opponeva radicalmente alla teoria di Pareto, secondo la quale si stabiliva un’ineguale capacità di soddisfazione tra gli individui. Pigou era invece convinto che tutti gli individui avessero uguali capacità di soddisfazione tra di loro e, proprio attraverso questo principio, è stato il primo ad introdurre nell’ambito dell’economia del benessere, il concetto moderno di “diseconomia esterna”.

Un economista americano, Tibor Scitovsky, nella sua opera più importante, “The Joyless Economy”(1976), ispirandosi alla scuola di Pigou, ha messo in evidenza come le diseconomie esterne costituiscono “eventi che tendono drammaticamente ad aumentare nel processo di sviluppo dell’economia moderna”, fino a trasformarsi in costi connaturati alla crescita economica, a causa dei sempre più frequenti e non reversibili danni all’ambiente.
L’economia moderna possiede una propria definizione di danno, definizione fondata sul concetto di valore proprio delle economie di mercato.

Tale concetto è essenzialmente utilitaristico e, coincide con la nozione di disponibilità a pagare che, in economia, è sinonimo di domanda di mercato. La complessità del problema è stata portata alla luce in occasione di grandi disastri ecologici, quale ad esempio il naufragio della Exxon-Valdez, oppure nel caso di attentati alla salute pubblica, quali il processo alla Montedison di Porto Marghera per i danni provocati dal PVC o il processo all’Eternit in Piemonte per i danni procurati a centinaia di lavoratori dall’esposizione all’asbesto.
Il problema nasce nel momento in cui ci accorgiamo che la grandezza che esprime tale danno viene determinata non già da un meccanismo di mercato, bensì da una sorta di simulazione condotta in un contesto che non ha nulla della realtà del mercato vero e proprio.

Nel dicembre 2007 è stato definito attraverso il “Bali Action Plan”, la strategia di adattamento ai cambiamenti climatici, che dovrà essere ratificato in un accordo durante i lavori dell’imminente summit di Copenhagen. L’Unione Europea ha già definito la sua strategia, illustrata in un suo White Paper del 2008, per lanciare politiche di adattamento climatico in tutti i Paesi membri e per ridurre il costo dell’impatto economico che si produrrà in conseguenza sia delle modificazioni climatiche effettive, sia delle politiche di adattamento a tali mutazioni irreversibili del clima.
E’ facile notare come i danni provocati da tali conseguenze sull’economia europea possono configurarsi come “ costi connaturati alla crescita economica”, così come Scitovsky li aveva definiti riconoscendone la loro esternalità rispetto al processo economico di mercato.

Da quanto apprendiamo dalla lettura del “White Paper” della Commissione europea, circa il 90% dei cosiddetti disastri naturali accaduti in Europa dal 1980 in poi, devono essere attribuiti agli effetti diretti ed indiretti dei mutamenti climatici a scala globale e locale, così come il 95% dei danni e dei relativi costi causati alle attività economiche da catastrofi naturali, dipendono dalle stesse cause.
Dal 1998 al 2007 l’incremento dei disastri naturali, in Europa, causati dai mutamenti climatici è progredito al ritmo del 65% sull’intero periodo e un recente rapporto dell’UNEP prevede che entro il 2012 si avrà un raddoppiamento di tali eventi rispetto al 1998.

E’ ancora vivo il ricordo nell’opinione pubblica europea della terribile “estate calda” del 2003; la perdita economica totale corrispondente ai danni generati sull’intero sistema di produzione dell’energia europeo, sul sistema dei trasporti, sull’agricoltura, sulla distribuzione idrica, sulle foreste e su altri fondamentali ecosistemi naturali europei,da quel “solo” evento catastrofico, si è aggirata intorno allo 0,2% del PIL europeo, pari a circa 30 miliardi di euro, equivalenti pressappoco a mille leggi finanziarie dello Stato Italiano.

La “calda estate” del 2003 ha avuto effetti catastrofici in Inghilterra dove ha generato un effetto di cambiamento ambientale di tipo irreversibile; la lunga siccità ha, infatti, prodotto un incremento del 20% delle domande di risarcimento da parte di proprietari di edifici le cui fondamenta erano state destabilizzate dall’esteso effetto di subsidenza che hanno subito i suoli urbani in molte città inglesi.
I danni arrecati agli edifici sono stati stimati tra i 100 e i 120 milioni di euro mentre i danni arrecati ai trasporti e al sistema infrastrutturale inglese è stato pari a 40 milioni di sterline.

In un articolo pubblicato su “Science magazine”(2007), Laurens Bouwer conferma che nei prossimi anni i danni prodotti alle attività economiche da parte delle conseguenze dirette ed indirette dei cambiamenti climatici, sono destinati a crescere rapidamente secondo una curva di tipo esponenziale. Le sue stime hanno fatto rabbrividire molti autorevoli esponenti della City londinese e dei mercati finanziari internazionali : egli prevede uno scenario al 2080 nel quale i costi di tali danni saranno aumentati del 68% rispetto ai livelli attuali, creando seri problemi allo sviluppo di tutti i Paesi, sia quelli ricchi che quelli poveri.

Appare evidente che ogni strategia di adattamento ai cambiamenti climatici è condizionata dalla capacità dei Governi dei Paesi di investire ingenti risorse finanziarie nella messa a punto di Piani, Programmi, Azioni e Misure per ridurre le conseguenze negative di tali cambiamenti e cercare di azzerare i danni economici prodotti attraverso la prevenzione dei disastri e delle catastrofi naturali.
Tuttavia, questa capacità di governare l’adattamento climatico è direttamente proporzionale al livello di conoscenza non solo dei modelli previsionali per studiare i mutamenti climatici, ma soprattutto al grado di vulnerabilità e di resilienza dell’ambiente in cui viviamo, dopo anni di urbanizzazione selvaggia e di inquinamento degli ecosistemi e delle risorse naturali locali.
Attualmente, questo livello di conoscenza è particolarmente basso in Italia e non ha ancora raggiunto standard di capacità ed efficienza accettabili nell’Unione Europea.

In Italia è ancora largamente dominante la vecchia idea ( alla quale si opponeva l’economista Pigou negli anni ’20) che i costi di prevenzione e di adattamento sono troppo alti rispetto ai probabili costi dei danni paventati; è proprio questa idea Paretiana dello sviluppo che ha ispirato Tremonti e Berlusconi nel sostenere a Bruxelles che l’Italia non poteva accettare gli obiettivi restrittivi, fissati dalla Presidenza francese dell’Unione europea con Sarkozy, per il rispetto del Protocollo di Kyoto. Questa tesi minimalista, presente in diversi governi di Stati europei, accetta di “ spendere” accollandosi solo la parte di rischio a bassa probabilità che un evento catastrofico possa accadere.

Chi, invece, fonda le sue analisi costi/benefici sull’idea che i costi e gli impegni necessari per costruire una strategia di adattamento ai cambiamenti climatici , costituiscono un investimento produttivo e direttamente intrecciato con la progettazione e la programmazione di uno sviluppo sostenibile dell’economia e delle città in cui vive, riterrà tali spese accettabili e prenderà in considerazione diverse alternative per affrontare sia il rischio del cambiamento climatico, sia il rischio dei danni economici nel lungo periodo insostenibili (2080) per qualsiasi governo.

In Italia, la contrapposizione tra la scuola di pensiero di Pareto e quella di Pigou, funziona ancora per distinguere con nettezza la Destra dalla Sinistra nella diversa concezione dello sviluppo del Paese : sarebbe ragionevole parlarne ai cittadini, per capire se anche essi risultano disposti a spendere per investire sul futuro, anziché rimanere immobili nella convinzione che i cambiamenti climatici, in fin dei conti, possono renderci anche più gradevole la vita sull’unico Pianeta che abbiamo a disposizione.

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