[05/01/2009] Urbanistica

Rumiz e il futuro della montagna italiana: verso uno sci sostenibile?

FIRENZE. «Quaranta funivie e seggiovie abbandonate in Piemonte, trentanove in Val d’Aosta, almeno venti in Lombardia, trenta tra Emilia e Liguria sul lato appenninico, trentacinque in Veneto e venticinque in Friuli-Venezia Giulia». Oltre «180 impianti chiusi nel solo nord Italia», il che significa «quattromila tralicci, centinaia di migliaia di metri cubi di cemento, seicentomila metri di fune d´acciaio, cinque milioni di metri di sbancamenti e di foresta pregiata trasformata in boscaglia». Questi i numeri che corredano l’articolo di Paolo Rumiz su “Repubblica” del 2 gennaio scorso, articolo che ha riportato il dibattito sul futuro della montagna sotto i riflettori dell’opinione pubblica.

E il punto focale, come giustamente annota Rumiz, è che «il conflitto tra ambiente e ski-business aumenta in modo drammatico» e che «la monocultura dello sci finisce per "cannibalizzare" tutte le altre opzioni (albergo diffuso, mobilità alternativa ecc.) perché distrugge i luoghi».

Ora, questo è solo parzialmente vero: gli impianti sciistici hanno spesso un impatto paesaggistico notevole, e rivestono sicuramente un ruolo significativo nella diminuizione della biodiversità nei luoghi in cui sono messi in opera. Ma ragionando in termini di sostenibilità, appare evidente come in molti casi l’economia del turismo invernale sia – se accompagnata ad altre attività meno impattanti – l’unica che possa opporsi al processo di abbandono della montagna che ci accompagna dal secondo dopoguerra. E, oltre a non apparire realistico, non sembra nemmeno auspicabile un ritorno ad un’economia esclusivamente agro-silvo-pastorale nelle regioni montane, che tanti danni ha causato in passato, soprattutto in direzione dell’integrità degli habitat boschivi e prativi d’alta quota e della stabilità dei versanti.

Lo sci ha cioè il suo impatto, ma ha anche degli evidenti vantaggi in direzione di una auspicabile autosufficienza della montagna rispetto alla pianura, e per molti versi è da considerarsi una attività educativa ad un corretto rapporto con il resto della biosfera.

Occorre però vedere di quale sci si sta parlando. Quello di ieri, quando bastava una pista battuta, uno skilift, un rifugio e la stagione “giusta”, aveva un impatto oggettivamente limitato, perlomeno dal punto di vista dell’impatto sulla biodiversità (meno da quello paesaggistico). Quello dei nostri giorni, però, è tutt’altra cosa: le necessità (o gli sfizi?) del turismo invernale odierno, in termini di sicurezza, accessibilità e ampiezza delle piste da sci impongono costi smisurati di gestione, e parallelamente le nuove tipologie di impianti hanno aumentato il loro impatto paesaggistico e naturalistico. La stagione “giusta” ormai è decisa dall’uomo tramite l’innevamento programmato, almeno in quei casi in cui le temperature permettono la produzione di neve artificiale (e non lasciamoci ingannare da questo inverno finora freddo e nevoso: negli ultimi dieci-quindici anni il clima sulle montagne italiane è stato fortemente deficitario in termini di temperature e – in misura minore – di precipitazioni).

E, riguardo alla neve artificiale, vanno considerati anche il pesante impatto sulle risorse idriche (e il forte impiego di energia) che è necessario per produrla, e i dubbi sulla eventuale dannosità degli additivi naturali (es. colture del batterio Pseudomonas syringae) e sintetici che spesso vengono aggiunti all’acqua dei cannoni per alzare la temperatura minima di congelamento. A questo va aggiunto anche il potenziale inquinamento del suolo rappresentato dal sale usato per sciogliere il ghiaccio sul manto stradale nei paesi montani, e l’impatto del solfato di ammonio (NH2SO4) che viene talora aggiunto sulle piste da gara per migliorare i tracciati, e che ha un significativo effetto concimante che modifica la struttura e la composizione delle popolazioni erbacee.

Infine, occorre considerare che i materiali e le tecnologie odierne hanno aumentato la velocità sulle piste, e hanno permesso un accesso di massa a pratiche come il fuoripista, molto dannose per la rinnovazione del patrimonio arboreo e per la fauna.

Questi, in breve, alcuni tra i molteplici tipi di impatto che lo sci odierno ha nei confronti del capitale naturale. E in futuro le cose non potranno che andare al peggio, soprattutto in quelle stazioni di bassa quota che – con forte probabilità – sono destinate a ricevere sempre meno precipitazioni e, soprattutto, a quote sempre più alte, a causa delle conseguenze del surriscaldamento climatico. E se gli scenari climatici più ottimistici ipotizzano un impatto limitato sull’industria della neve, perlomeno nei prossimi decenni, quelli di impronta più negativa vedono la quota-neve salire a quote talmente alte da rendere assolutamente anti-economico ogni tipo di investimento.

Gli impianti da sci sono notoriamente attività in perdita, nella quasi totalità dei casi: servono in sostanza a creare attrattiva per l’indotto ad essi correlato, indipendentemente se esso sia riconducibile alla speculazione cui accenna Rumiz nel suo articolo o ad un corretto sviluppo urbanistico ed economico delle realtà montane. Parti ingenti delle spese sono peraltro coperte da fondi pubblici: per citare il caso della Toscana, vogliamo ricordare i 1.600.000 euro che la regione Toscana ha corrisposto, due anni fa, nel rinnovamento dell’impianto della seggiovia “Riva” nel comprensorio dell’Abetone, coprendo circa il 40% dell’investimento.

E, se appare giusto che il pubblico vada a sostenere il privato, in questi casi in cui è in gioco la sopravvivenza di un’economia montana, appaiono assurdi i vari casi citati nell’articolo di Rumiz (parco di Paneveggio, parco delle Orobie, parco dell’Adamello) in cui la mano pubblica ha aiutato (o aiuterà) lo sviluppo di nuovi impianti che incidono su aree protette. Questo perchè, pur essendo evidente che una buona pianificazione del territorio deve compenetrare le esigenze sia di salvaguardia ma anche di sviluppo impiantistico (dove esso ha un senso), la presenza di aree protette può e deve costituire un volano per lo sviluppo di attività extra-sciistiche e di un flusso turistico non solo invernale. E se questo processo non è preso come obiettivo (e non viene governato) dai decisori politici, appare piuttosto difficile riuscire a trovare i necessari compromessi.

Altra necessità, a questo riguardo, è una normativa che imponga a priori, in caso di apertura di nuovi impianti, l’obbligo di smantellamento di essi a fine vita tecnica (e faccia chiarezza su chi devono gravare i relativi oneri finanziari), per evitare che progetti di sviluppo turistico extra-sci possano essere vanificati dalle brutture lasciate dagli scheletri degli impianti abbandonati, che peraltro hanno anche un significativo impatto in termini di inquinamento del suolo e costituiscono un non-sense dal punto di vista della tutela paesaggistica, proprio in luoghi dove – più che altrove – paesaggio e ambiente costituiscono vera e propria fonte di introito.

Resta poi da vedere, in chiusura, quale possa essere l’effettivo impatto futuro dei cambiamenti climatici indotti dal surriscaldamento globale, che potrebbe come già detto rendere insensato (oltre che anti-economico) ogni investimento privato o pubblico in stazioni di media montagna. Ma gli studi a riguardo sono carenti e non sistematici rispetto a quelli disponibili per altre realtà europee (es. Svizzera), e forse anche questo aspetto andrebbe affrontato con una logica maggiormente preventiva e analitica. Ma si sa: quest’inverno è piuttosto freddo e nevoso, quindi il global warming è una bufala, ergo non servono studi e ricerche che quantifichino nel dettaglio le possibili future evoluzioni del clima e (conseguentemente) dell’economia delle montagne italiane. Così avviene (se vi pare) nella terra del popolo no-limits.

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