[15/12/2008] Comunicati

Italia: normale maltempo o evento estremo?

FIRENZE. Affacciati alle spallette dei ponti, guardiamo i fiumi trasportare i cadaveri dei tronchi d’albero. E nel mentre, i barconi creati per le nostre feste danzanti, sfuggiti ad ormeggi insufficienti, vengono fatti esplodere dai genieri militari, per liberare le arcate. E l’acqua marrone scorre dove erano le nostre strade d’argine e le piste ciclabili, ora salendo ora riabbassandosi nella sua sfrenata corsa verso il mare.

E, affascinati e intimoriti dalla violenza e dalla maestosità del fiume, pensiamo... Cosa è di noi e cosa è della natura in questo maestoso, devastante spettacolo di vita e di morte? In questi giorni sulla stampa generalista si sono sprecati i commenti sull’attuale, perdurante fase di accentuato maltempo: tra un editoriale e un articolo di fondo, la stampa italiana denota la diffusa convinzione che il territorio sia stato sfregiato al punto da rendere vana ogni difesa contro la furia degli elementi.

E’ radicata, cioè (e per fortuna), la percezione dell’impatto antropico sul territorio come qualcosa che – se non improntato a criteri di sostenibilità – porta necessariamente alla perdita di quell’equilibrio su cui il territorio stesso si basa. Dalla cementificazione delle sponde alla canalizzazione dei letti, dall’urbanizzazione delle aree golenali all’abusivismo edilizio, alla perdita della complessità e diversità dei popolamenti forestali montani, con i conseguenti problemi legati al più rapido e concentrato deflusso idrico.

Tutti problemi, tutti difetti riconducibili alla categoria superiore del “cattivo” (cioè insostenibile) utilizzo che del nostro territorio abbiamo fatto e continuiamo a fare. E aggiungiamoci un’altra tipologia di “utilizzo insostenibile” del territorio, e cioè la cronica mancanza di manutenzione che grava sulla gran parte delle infrastrutture del nostro paese «fragile», in cui «il concetto di manutenzione è abbandonato perché non è foriero di modernità, non risponde al culto dell’usa e getta, non è sufficientemente avvezzo al modello consumistico cui veniamo richiamati all’ordine», come giustamente ha annotato Lucia Venturi su greenreport del 12 dicembre scorso.

Ma, mettendo da parte per un attimo quanto sopra esposto, occorre domandarci anche questo: il surriscaldamento globale e i conseguenti cambiamenti climatici hanno un ruolo significativo in quanto avvenuto in questi giorni sull’intero stivale, dalla Toscana al Lazio alla Calabria, o siamo di fronte ad eventi che – pure “estremi” - sono riconducibili ad un criterio di “normale eccezionalità”? Per rispondere, occorre andare alla ricerca di dati climatici che attribuiscano o meno un carattere di “eccezionalità” a quanto avvenuto in questi giorni.

Per esempio, sappiamo che la piena più devastante che ha gonfiato le acque del Tevere è avvenuta, nel nostro secolo, il 17 dicembre 1937, con un’altezza delle acque di 16,84 metri sopra lo zero idrometrico (dati: Autorità di bacino del Tevere) che ha superato di parecchio i circa 13 metri raggiunti durante la piena di questi giorni. Per ottenere eventuali correlazioni con i cambiamenti climatici dobbiamo però osservare non il dato singolo ma il trend relativo alle piene: e come si può notare nell’immagine, nell’intervallo tra il 1870 e il 2000 le piene del Tevere (calcolate come portata d’acqua in modo da ottenere dati al netto di eventuali lavori di miglioramento degli argini) sono state in diminuizione, anche sensibile.

Una buona notizia, quindi? Dipende da quali altri dati si integrano con essa: come sappiamo, il trend di precipitazioni sull’intera penisola è in lieve ma costante diminuizione fin dal 1850, in buona parte a causa dell’incrementata spinta da sud degli anticicloni sub-tropicali: e questo è un effetto che – al netto della normale variabilità climatica – è assolutamente da mettere in relazione con il surriscaldamento del sistema climatico, che tra le altre conseguenze vede anche l’aumentata potenza dei meccanismi di trasporto di calore dall’equatore alle zone temperate (ad esempio la Cella di Hadley) e conseguentemente una maggiore persistenza delle aree anticicloniche alle nostre latitudini.

Solo nel 2008, dopo anni di deficit, le precipitazioni sono tornate su valori intorno alla media, sul Belpaese. E il mese di novembre da poco passato ha visto precipitazioni superiori del 67% superiori alla media, in attesa dei dati di questo dicembre che ai più sta sembrando pure molto piovoso. Ecco quindi che il dato relativo alla diminuizione degli eventi alluvionali va incrociato con quello inerente alle precipitazioni. Se concentriamo l’attenzione sul Lazio, notiamo che secondo la locale Autorità di bacino «le precipitazioni sulle regioni del medio Tirreno nel corso degli ultimi 100 anni hanno subito variazioni negative: il totale medio annuo è diminuito circa tra il 10 e il 15%».

Ecco quindi che anziché essere una buona notizia, la diminuizione delle piene del Tevere sembra indicare un primo, fondamentale legame con i cambiamenti climatici, poichè la concomitanza di una riduzione delle piogge e di un aumento degli eventi meteorici di forte intensità (su cui purtroppo mancano dati globali riferiti all’Italia) causa come primo effetto un aumento dello scorrimento superficiale delle acque, e conseguentemente aumenta il rischio di alluvioni. Paradossalmente, quindi, meno piove e più il terreno è esposto ad una maggiore impermeabilizzazione, e quindi aumenta il pericolo di alluvioni in caso di eventi forti.

Restano però da individuare percorsi di ricerca che possano dare valore scientifico su scala nazionale alle analisi sui tempi di ritorno di questi eventi: occorre cioè una vera e propria contabilizzazione dell’impatto dei cambiamenti climatici sui sistemi umani, basata prima di tutto sulla ridefinizione del concetto di “evento estremo” e sul calcolo degli eventuali mutamenti dei tempi di ritorno: in definitiva, occorre quindi ridefinire la nozione di “rischio accettabile” nella programmazione territoriale alla luce dei cambiamenti climatici in corso.

Ma, come avviene riguardo alla più ampia scala globale, ancora non abbiamo dati sufficienti per individuare veri e propri trend che ci consentano di analizzare adeguatamente la situazione del clima e – soprattutto – le sue possibili evoluzioni future: sappiamo solo che l’indubitabile surriscaldamento che il pianeta sta subendo (e il ruolo più o meno prominente che le emissioni umane dirette e indirette giocano in esso) spingerà con ogni probabilità in direzione di un aumento dell’intensità e (quasi con altrettanta probabilità) del numero di eventi meteorici forti, sia che si parli di un uragano caraibico, sia che si tratti di un temporale sulle montagne della Ciociaria.

Dagli Appennini alle Ande, il surriscaldamento del sistema climatico sta già aumentando la potenza degli eventi estremi, e sta già diminuendo il tempo di ritorno di essi: resta solo da vedere quale futuro attende il nostro paese, già così esposto per i motivi sopra citati ai mutamenti del clima. E restano da svolgere, e da finanziare, quegli studi climatici che individuino trend incontestabili e indichino quale potrà essere la futura evoluzione del clima sul nostro paese. E una volta che questi studi climatici saranno stati compiuti, resterà ancora una cosa da fare: introdurre nel dibattito politico nazionale la necessità di una quantificazione economica dei possibili danni derivanti dai mutamenti climatici, cioè aprire la porta ad un vero e proprio “Rapporto Stern italiano” come già affermato a greenreport dal climatologo Giampiero Maracchi, e come da molte parti comincia ad essere ipotizzato.

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