[07/11/2008] Consumo

Lezioni di economia (4)

La redistribuzione del reddito
Torniamo al nostro esempio, e continuiamo a supporre che la domanda effettiva sia pari a 14. Ipotizziamo però che a questo valore si arrivi in modo diverso da quello precedentemente illustrato. Immaginiamo che al 50% dei lavoratori impiegati nel settore 1 si riconosca un salario pari a 2.5 e al restante 50% dei lavoratori si riconosca un salario pari a 1.5. Lo stesso accada nel settore 2. In media, perciò, il salario continua ad essere pari a 2 in entrambi i settori . Ne segue che i prezzi calcolati in precedenza continuano a valere. Nell’economia vi sono ora 3.5 lavoratori che percepiscono un salario pari a 2.5 (i “ricchi”); 3.5 lavoratori che percepiscono un salario pari a 1.5 (la “classe media”) e, infine, 3 disoccupati (“i poveri” o potenzialmente tali). Come dicevamo, la domanda effettiva continua ad essere pari a 14, ma, ipotizziamo, ci si arriva diversamente: a) ciascun ricco compra 10 unità del bene 1 e 5 unità del bene 2. Per farlo, spende, come nel caso precedente, 1.4. Il suo risparmio è ora pari a 2.5-1.4=1.1. Il risparmio complessivo dei ricchi sarà allora pari a 1.1X3.5=3.85. Ciascun ricco spende il 56% del proprio reddito (1.4/2.5); b) ciascun esponente della classe media compra 10 unità del bene 1 e 5 unità del bene 2. Rifacendo i medesimi conti del punto precedente, si scopre che il risparmio complessivo della classe media è ora pari a 0.35 e che ciascun suo esponente spende poco più del 93% del proprio reddito (1.4/1.5); c) infine, i 3 disoccupati, esattamente come nel caso precedente, ricevono in prestito il risparmio accumulato dalle altre categorie (3.85+0.35=4.2) e lo spendono interamente nell’acquisto di beni di consumo. Essi spendono cioè il 100% del loro reddito disponibile. Sin qui abbiamo detto l’ovvio: che all’aumentare del reddito personale si riduce la frazione del reddito stesso destinata alla spesa. Che succederebbe, allora, se il governo facesse pagare ai ricchi una imposta pari a 0.25 (il 10% del loro reddito) e la trasferisse agli esponenti della classe media? Il reddito netto di ciascun ricco sarebbe ora pari a 2.5-0.25=2.25 e quello degli esponenti della classe media pari a 1.5+0.25=1.75. Le distanze si sono ravvicinate, ma i ricchi restano sempre saldamente i più ricchi. Perciò possiamo continuare ad ipotizzare, molto ragionevolmente, che il primo gruppo tenda a spendere una frazione del proprio reddito netto inferiore al secondo. Mantenendo per pura semplicità gli stessi numeri di prima, i ricchi spenderanno ora il 56% di 7.875 (ovvero di 2.25x3.5), cioè 4.41; gli esponenti della classe media spenderanno ora il 93% di 6.125 (ovvero di 1.75X3.5), cioè 5.71; infine, i 3 disoccupati spenderanno i risparmi delle altre categorie sociali, ovvero, fatti i conti, spenderanno 3.874. E’ immediato verificare che la domanda effettiva dell’economia sarebbe ancora pari a 14 (4.41+5.716+3.874). Nel nostro caso neppure una redistribuzione del reddito in senso egualitario servirebbe a ridurre il gap tra reddito effettivo e reddito potenziale. Ancora una volta: quando l’economia già spende tutto il reddito prodotto, non serve – dal punto di vista dello stimolo macroeconomico generale – concentrarlo nelle mani di chi ha una più elevata propensione a consumare. Ciò non significa naturalmente che un simile processo redistributivo non sia desiderabile per altri ed altrettanto importanti scopi. In particolare, tante volte ci dimentichiamo che se nei sistemi politici democratici vale – dove più dove meno – il principio “una testa, un voto”, nei sistemi economici vale invece il principio plutocratico “un dollaro, un voto”. In altri termini, quali siano i beni effettivamente prodotti e in quali proporzioni è deciso da chi per essi è in grado di esprimere domanda pagante, ovvero da chi sta nella parte alta della distribuzione del reddito. Il mercato, diceva Luigi Einaudi, soddisfa domande e non bisogni. In Italia negli ultimi 15 anni la distribuzione del reddito ha subito un peggioramento impressionante, come ci ha ricordato il recente rapporto pubblicato dall’OCSE. Non è tutta colpa dei governi che si sono succeduti (che pure qualche responsabilità ce la devono avere, se è vero come è vero che il fenomeno in questione in Italia è stato più rilevante che altrove); fatto sta che Tito Boeri fa bene ad insistere su di una estensione e rimodulazione del welfare che possa almeno mitigare la concreta durezza di questi processi.
La lista delle politiche destinate a non raggiungere lo scopo dell’azzeramento, o quantomeno della riduzione del divario fra reddito effettivo e reddito potenziale si sta ingrossando. Fra quelle sin qui analizzate, la sola che può eventualmente contribuire al raggiungimento di questo scopo è la politica industriale pro-innovazione (si veda la nota 2). Non può essere la sola, tuttavia. Innanzitutto perché, ammesso che funzioni, i suoi effetti tendono a dispiegarsi in un tempo medio-lungo. Inoltre, perché i suoi effetti macroeconomici di stimolo alla domanda effettiva sono tanto più deboli quanto più efficace e pervasiva è la medesima politica praticata dagli altri paesi. Che altro ci resta?

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