[06/10/2008] Recensioni

La Recensione. Poteri pubblici, mercati e globalizzazione di Marco D’Alberti

Marco D’Alberti è professore ordinario di Diritto amministrativo nella facoltà di Giurisprudenza della Università La Sapienza di Roma. E’ stato componente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato dal 1997 al 2004.
Il libro in questione è uscito in libreria quest’anno ma, ovviamente, è stato scritto quando la crisi dei subprime non era esplosa con la virulenza di questi ultimi mesi.
Chissà se l’espertissimo autore, oggi, riscriverebbe tutte le cose che ha scritto poco più ( o poco meno) di un anno fa.
Il libro sostiene, argomenta e illustra una tesi: non è vero che il mercato globalizzato è senza regole e non è vero che il pubblico, soprattutto negli ultimi 15 anni, ha diminuito la sua presenza regolatrice sul mercato, anche se lo ha fatto in modo diverso.
L’autore parte da lontano dimostrando, non senza fondati argomenti, che “la disciplina pubblica dell’economia conferma la sua lunga continuità nella storia” confutando la tesi per la quale “con gli anni ‘80 del novecento, con il declino delle soluzioni diverse dall’economia di mercato e con il consolidarsi della globalizzazione degli scambi, è sembrata entrare in crisi la stessa idea dell’intervento dei poteri pubblici nell’economia”.

Naturalmente l’autore non nega, anzi evidenzia, che con la globalizzazione si riespande (come nel medioevo) la lex mercatoria come prodotto delle grandi imprese, soprattutto multinazionali.
La globalizzazione si nutre di “un regime giuridico privato, che trova la sua massima espressione nei grandi contratti internazionali, in materia commerciale e finanziaria………….I contratti internazionali tendono dunque a divenire vere e proprie fonti del diritto e non vi è spazio per l’integrazione del contratto tramite norme di legge………..nella società contemporanea dei servizi e della finanza la tecnologia industriale è sostituita dalla tecnica contrattuale”. A queste affermazioni, tuttavia, l’autore affianca la considerazione per la quale “oggi, l’area delle regolazioni poste dai pubblici poteri si estende, con il moltiplicarsi dei regolatori pubblici ultranazionali accanto a quelli nazionali”. E ancora, “ si rafforza la dimensione globale della regolazione ( dei mercati, ndr) e assume rilievo fondamentale il diritto alla concorrenza, sia nella repressione delle infrazioni commesse dalle imprese ( sic!), sia per il fatto che le regole e il principio di concorrenza divengono un parametro essenziale che condiziona l’intera regolazione pubblica dell’economia”.

Chiunque abbia dato uno sguardo ai quotidiani di questi ultimi mesi o settimane, si renderà conto del rapporto fra questa lettura e la realtà effettuale. Al di la delle dispute (queste si, turboideologiche) sull’infinita vexata quaestio fra stato e mercato, l’approvazione nei giorni scorsi del piano di salvataggio deliberato dal parlamento americano parla da solo su quanto e come la regolazione pubblica (esattamente quella regolazione pubblica indicata dall’autore) abbia funzionato.

Fra i fiumi di inchiostro scritti sulla fallacia di quelle regole potremmo scegliere di citare due rigagnoli significativi. Uno di Federico Rampini su La Repubblica di mercoledì primo ottobre dove si afferma che “ è tutta l’architettura dei mercati finanziari europei che va ridisegnata, superando per sempre l’attuale mosaico di competenze suddivise tra staterelli impotenti, nani lillipuziani rispetto alle dimensioni globali dei Moloch bancari che loro stessi hanno autorevolmente incoraggiato a crescere”.
Il secondo di Marco Onado sul Sole 24 ore dello stesso giorno il quale afferma che (per non perdere del tutto la fiducia, peraltro abbastanza scossa, nei mercati) “è necessario prima di tutto riconoscere quanto imperfetto fosse il mercato finanziario e quanto inefficienti fossero le regole in tutti i Paesi, a cominciare dagli Stati Uniti”.

Ma potremmo citare anche il direttore del FMI, Strauss Khan, che parla (ora) di “fallimento delle regole attuali” o Amato che osserva (ora) come le “agenzie di rating sono pagate in gran parte da coloro che devono essere valutati”. E’ vero che l’autore fa una distinzione fra la dimensione nazionale, quella comunitaria e quella internazionale dove evidenzia che mentre l’Europa ha garantito “un maggior equilibrio fra libertà economiche e altri valori quali la tutela dei consumatori, la salvaguardia dell’ambiente e la garanzia del diritto alla salute”, in “importanti aree della disciplina internazionale dell’economia, tali equilibri, sono ben lontani dall’essere raggiunti”. Ed è pure vero, come aggiunge D’Alberti che in Italia invece, al di là delle ideologicissime dispute alimentate dalla confusione terminologica che confondeva (e confonde) il termine liberalizzazione con quello di privatizzazione si è proceduto spesso per strattoni passando (quando ci si è passati) da monopoli (o cartelli) pubblici a quelli privati, lasciando la concorrenza a languire ed alimentando costi di sistema ben al di sopra della media europea.

Ma il nocciolo del problema, come invece ancora in questi giorni si va sostenendo sotto tutte le latitudini, non sono affatto le regole. O per meglio dire: il nocciolo del problema non sono affatto, solo, le regole. Né quelle che non hanno funzionato ( neo-lex mercatoria, Autority, Agenzie di rating, ecc….) né quelle nuove che debbono, ovviamente, essere introdotte e, invece, funzionare nel regolare e garantire la concorrenza. Il nocciolo è come riorientare l’economia verso la sostenibilità e con quale governance.

E invece proprio in questi giorni, in cui la crisi finanziaria sta allungando la sua ombra sull’Europa, non solo si assiste a surreali pontificazioni del tipo “ io l’avevo detto”, da parte di chi ha firmato condoni a go-go e approvato leggi per depenalizzare il falso in bilancio proprio in concomitanza con lo scandalo casereccio della Parmalat; ma da qualsiasi parte si pensa esclusivamente a come ri-tarare la strumentazione per garantire la concorrenza e far ripartire la locomotiva della crescita esattamente nel binario dissipatorio in cui si è incanalata almeno a partire dal secolo scorso.

E Il nodo di come orientare la crescita economica verso un uso sostenibile dei flussi di energia e di materia non è neanche sfiorato. Anzi, peggio: si cerca di far fronte all’inasprimento certo della crisi economica tornando indietro dagli impegni europei sulla necessaria diminuzione delle emissioni e rilanciando il nucleare come le grandi opere (meno che le ferrovie) o come la costruzione di ulteriori porti turistici.
E da questa impostazione non escono né i liberisti né i neoriformisti. L’intimazione neoriformista per la quale “il dinamismo autonomo dell’economia” non va né diretto né orientato ma solo accompagnato, a prescindere dalla sua direzione, andrà anch’essa probabilmente rivista.

Una economia globale che, non solo emette “titoli tossici” in quantità orgiastiche, ma destina 500 miliardi di dollari alla pubblicità e 70 miliardi alla ricerca sanitaria (tutta orientata verso la soluzione delle malattie cosiddette da “benessere” ); una economia che spende più di quanto guadagna non solo in termini finanziari bensì, soprattutto, in termini di consumo del proprio capitale naturale è una economia che va riorientata e non accompagnata verso il baratro in cui ci sta trascinando.

Non si deve, dunque, solo reagire al rallentamento della locomotiva della crescita, si deve operare per fargli cambiare direzione altrimenti, come diceva qualcuno, “arriveremo esattamente dove siamo diretti”.
Non sono solo le regole che hanno portato a questa situazione ad essere “suicide”. E’ suicida rispondere con ricette da anni ’50 come pensa di fare l’attuale governo e come questo vorrebbe che facesse l’Europa.
Se infatti “non è vero che il mercato globalizzato è senza regole e non è vero che il pubblico, soprattutto negli ultimi 15 anni, ha diminuito la sua presenza regolatrice sul mercato, anche se lo ha fatto in modo diverso”, è però, ora, vero e acclarato che è esattamente questo “modo diverso” (che poi è pensare all’intervento pubblico come mero smistatore di un traffico che ha una direzione sbagliata) che ha portato all’attuale crisi.

Dunque, o si prende atto che il cuore dell’economia reale è dato dai flussi di materia e di energia e che se questi non vengono governati e orientati (si, orientati, diretti) tenendo di conto della loro limitatezza o si sega il ramo su cui la stessa economia è seduta anche se con regole (speriamo) nuove.

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