[06/10/2008] Monitor di Enrico Falqui

Dalla città fossile ad Ecocity

FIRENZE. Il 20° secolo ha segnato una svolta nella storia dell’architettura, perché nei luoghi dove petrolio, gas e materiali da costruzione diventavano di facile reperibilità, gli edifici hanno via via perso le caratteristiche dettate dalle diversità climatiche e regionali.
Le ampie disponibilità di risorse di energia e di materiali hanno fornito piena libertà agli architetti e ai pianificatori urbani, eliminando la maggior parte dei vincoli di tipo climatico, geografico ed ecologico.
E il risultato è stato l’uniformità globale dell’architettura e la città contemporanea è divenuto un sistema smisuratamente energivoro e a bassa efficienza, nel quale oggi si consuma il 75% dell’energia totale e dove si produce l’80% delle emissioni climalteranti, come ci ha recentemente spiegato Nicholas Stern nel suo ormai celebre rapporto al governo inglese ( ottobre 2006) .

Fu Le Corbusier, nella sua carta d’Atene (1944), a formulare per primo la filosofia di una pianificazione delle “città fossili”, originate dalla grande disponibilità di petrolio e carbone, che hanno fatto nascere i centri industriali, intorno ai quali si sono addensate per anni generazioni di popolazione sfuggita alla miseria delle campagne e al sottosviluppo delle regioni povere.
La suddivisione della città, pianificata da Le Corbusier in zone funzionali separate per le abitazioni, il lavoro, i negozi, il divertimento, ha creato le condizioni ottimali per un “uso di massa “dell’automobile, trasformando le città “a misura d’uomo”, in crescenti metropoli a misura di Chrysler, Volkswagen, Peugeot e Fiat.

Verso la fine degli anni ‘80, tuttavia, il movimento del New Urbanism inizia a mettere in discussione questo modello di sviluppo “periurbano”, criticando pesantemente l’assetto delle moderne periferie, definendole un “sistema di parcheggio” degradato e anonimo, frutto di una concezione della pianificazione urbana fondata sugli assiomi energivori e inquinanti che stanno alla base della “Carta d’Atene”.
Tuttavia, proprio in quel periodo, ha inizio la globalizzazione dei sistemi energetici con il progressivo allargamento delle reti e la trasformazione radicale del ciclo e delle strutture territoriali dell’industria; per molti di questi settori, tale trasformazione dei sistemi energetici permette di spostare le strutture centrali dell’industria in modo sempre più facile e veloce, persino al di là della capacità di adattamento della forza lavoro, costretta a una sempre crescente mobilità.

E’ la prima volta, nella storia recente della città moderna, che vengono a incrinarsi i legami tra città e settori produttivi strategici dell’economia urbana.
La nuova mobilità aziendale comincia a lasciare alle spalle gli abitanti delle megacittà nelle loro aree residenziali, da dove un tempo uscivano per andare a lavorare, a fare la spesa, a divertirsi.
Senza sufficiente lavoro e reddito, la divisione in zone “funzionali” della città perde qualsiasi senso.
Nel 1996 Ronald Fletcher porta a compimento un’imponente ricerca (pubblicata nel saggio “The limits of settlements growth) nel quale mette in evidenza le restrizioni culturali, politiche e tecnologiche che hanno condizionato il fenomeno dell’espansione della città, segnalando alla cultura urbanistica europea i guasti derivanti dai nuovi “miti dell’architettura”, che vedono nella città globale (modello acclamato dalla nuova economia finanziaria mondiale) e nell’indipendenza del progetto dal “luogo”, il nuovo Nirvana di una metamorfosi urbana che sembra ormai priva di ogni capacità di autocontrollo.

Le tesi dell’economista ambientale Robert Costanza, esposte nel corso della 3° Conferenza dell’Isee (International society of ecological economics) a S. Josè di Costarica (1994), avevano tuttavia smentito che il mito della città-globale potesse sostituire quello della città-fossile, dal momento che già nel mese di ottobre di quello stesso anno, la Terra aveva esaurito la base energetica e di risorse naturali necessaria al suo sviluppo.
La “metamorfosi urbana”, così come Fletcher aveva intuito, doveva dirigersi verso un altro modello di città ideale dal momento che proprio in quegli anni, erano venuti meno i tre principali assiomi sui quali, per oltre un secolo, si era retto il modello di città cosiddetto “fordista”, al quale Le Corbusier, per primo, aveva dato una forma e una logica urbana.

Tali assiomi sono costituiti dal raggiungimento del picco del petrolio, sul quale si fonda il modello urbano della maggior parte delle metropoli del Terzo Mondo, in via di sviluppo; dalle modificazioni climatiche che, impongono, secondo i più recenti dati dell’ Ipcc una riduzione delle emissioni globali del 60% rispetto ai livelli registrati nel 1990; dall’enorme incremento di quelle “spese difensive” che Christian Liepert ( economista dell’Institut of Economic-ecological research di Berlino) aveva definito quelle connesse ad attività economiche per mezzo delle quali ci possiamo difendere dagli effetti collaterali indesiderati della crescita economica.

E’ significativo che Liepert avesse scoperto che in Germania, tra il 1978 e il 1998, mentre il PIL era cresciuto del 50%, le spese difensive erano cresciute del 300%! Così come era altamente istruttivo che le ricerche svolte dall’architetto Soleri sulle metropoli americane avessero dimostrato che i grattacieli , in rapporto alla loro altezza (via via sempre crescente fino a raggiungere, oggi, l’apogeo nella torre di Dubai), rappresentassero delle “macchine” edilizie insostenibili per consumi energetici pro capite e per consumi di mobilità indotti.
Lo scienziato Mc Granahan ha documentato alla Commissione europea (2007) che 300.000 europei nel 2005 sono morti a causa degli effetti prodotti dal solo inquinamento atmosferico nelle grandi e medie città europee.
I costi “economici” di questa vera e propria “ strage” causata dall’organizzazione territoriale delle città-fossili europee sono elevatissimi e destinati a crescere in modo esponenziale se, in futuro, dovessimo pensare di sostituire le fonti fossili con la fonte “plutonio”, per alimentare la gigantesca domanda di energia che proviene dalle città occidentali in cui viviamo.

Il passaggio dall’attuale arcaico regime energetico delle città a un modello urbano fondato sulle risorse ed energie rinnovabili è ormai maturo e necessario. Questa gigantesca “rivoluzione” dell’idea di città è già oggi nell’agenda dei governi europei più sensibili all’innovazione tecnologica e ai mutamenti culturali, quali sono oggi Germania, Francia, Inghilterra, Spagna, Austria, Danimarca, Svezia. L’Italia invece rivolge la sua attenzione al passato e guarda con diffidenza e superficialità questi cambiamenti che avvengono intorno a sé stessa.

Questa sfida, che Jeremy Rifkin chiama la terza rivoluzione industriale, riguarda non solo il modo di produrre energia, il modo di utilizzare il calore e gli efficienti mezzi per distribuirli; la sfida che abbiamo davanti oggi, investe soprattutto la concezione e la forma della città, la tipologia dei manufatti e delle infrastrutture, i comportamenti sociali e gli stili di vita urbani. Sono questi cambiamenti che devono divenire, nel più breve tempo possibile, globali, analizzando la complessità della città contemporanea per smontare tutte le viti e gli ingranaggi attraverso le quali si è costruita la più gigantesca “struttura dissipativa” dell’umanità: la città-fossile.

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