[06/10/2008] Comunicati

Crisi, Cogliati (Legambiente): Leggiamola attraverso il prisma dell´interesse generale

ROMA. Ciò che è straordinario in Italia è il devastante risorgere, come l’araba fenice dalle proprie ceneri, dei luoghi comuni più banali e falsificanti. Peccato che le ceneri, in questo caso, sono il futuro di noi tutti. L’ultima in ordine di tempo è della presidente dei Giovani imprenditori di Confindustria, Federica Guidi, che il 3 ottobre, nell’incontro di Capri della sua associazione, parlando del futuro dello sviluppo industriale in Italia, torna agli anni ’70 e definisce l’ecologia e la tutela ambientale come “un lusso o preoccupazioni di carattere davvero limitato”, adatte solo per i paesi ricchi che non hanno problemi di crescita economica.

Sostenere che l’ecologia sia una zavorra, piuttosto che un fattore di sviluppo e competitività, è una dimostrazione di arretratezza culturale e di ristrettezza di vedute che stende un’ombra inquietante sul sistema imprenditoriale italiano, tanto più che queste considerazioni sono state espresse proprio da chi dovrebbe rappresentare il futuro del management italiano.

Eppure la crisi energetica non è un’invenzione degli ambientalisti (+25% dei consumi energetici nel mondo negli ultimi dieci anni, per effetto dello sviluppo accelerato dei Paesi emergenti, conflitto in Iraq, impennata del prezzo del petrolio). Basta che nei prossimi anni solo il 20% della parte più ricca dell’Asia emergente raggiunga i livelli di consumo occidentali, perché si raddoppi nel mondo la popolazione che vive secondo gli standard europei.

Basterebbe questo per richiedere un nuovo senso di responsabilità e, soprattutto, capacità di guardare con occhi nuovi quanto sta succedendo e, piuttosto che lamentarsi, interrogarsi sull’accesso a nuove fonti energetiche, sull’efficienza del ciclo produttivo e del modello di consumo.

Occhi nuovi che non sono mancati alla Commissione Stern, incaricata dal Governo Britannico nel 2006 di stendere un Rapporto sugli effetti economici e sociali dei cambiamenti climatici. Lo scenario al 2100 che Stern disegna parla di una quota tra il 5% ed il 20% del Pil mondiale che dovrà essere utilizzata per riparare i danni provocati dall’effetto serra. Mentre se si destinasse da subito una quota pari al 1% del Pil mondiale si riuscirebbero a mitigare i cambiamenti in corso. Come a dire che prevenire costa molto meno che riparare. O, per dirla con Rifkin, l’intreccio tra le tre grandi crisi in atto, quella finanziaria, scatenata dalle banche statunitensi, quella energetica e quella provocata dal global worming, rappresenta oggi una straordinaria occasione di rinnovamento.

Lo conferma una recentissima ricerca delle Nazioni Unite sulla relazione esistente tra economia verde e impatto sul mondo del lavoro (´Lavoro Verde: Professioni dignitose in un mondo sostenibile e a basso emissione di carbone´), secondo la quale prevenire i cambiamenti climatici potrebbe generare milioni di nuove opportunità di lavoro. A condizione che, come sottolinea il direttore esecutivo dell´Unep Achim Steiner, commentando la ricerca, "alcuni degli incentivi economici messi a punto in questo delicato momento, siano finalizzati, non tanto al mantenimento delle economie del ventesimo secolo, quanto all´investimento in progetti legati alle nuove economie del 21 secolo".

Insomma l’interdipendenza e la lungimiranza dovrebbero essere le parole chiave di economisti, politici ed imprenditori. Un approccio unilaterale non basta, ma l’inerzia di alcuni paesi non può legittimare il resto del mondo a non farsi carico di questi nuovi scenari. La recente vittoria del centro sinistra in Australia, avvenuta proprio su questi temi, è un buon segnale. Questa, d’altra parte, è la logica con cui si è voluta muovere l’Europa con la politica così detta del 20-20-20, che già alla Conferenza dell’Onu di Bali ha aperto qualche spiraglio sul piano internazionale. Su questo terreno trovano punti di condivisione i leader di destra e di sinistra del mondo sviluppato, a cominciare dai candidati McCain ed Obama.

Interdipendenza e lungimiranza dovrebbero farci muovere su due tavoli paralleli. Da una parte attrezzare le proprie economie locali (europea e nazionale) per essere in grado di coprire i nuovi terreni di sviluppo che si apriranno sul piano delle energie pulite, dell’efficienza, della riduzione di emissioni, che investono settori chiave come l’industria, i trasporti, l’edilizia. Dall’altra operare perché proprio a partire dall’emergenza climatica si affermi un New Deal del governo mondiale, una rivitalizzazione degli organismi internazionali, capaci di ridare alla politica il ruolo che le spetta, ridimensionando il peso assunto da organismi come Wto e Banca mondiale.

D’altra parte l’attuale crisi economico-finanziaria sembra sollecitare passi nella stessa direzione, perché ha suonato il de profundis per le teorie ultraliberiste che hanno dominato la globalizzazione degli ultimi 20 anni. Non è il mercato da solo che può scongiurare il collasso ambientale, serve un governo multilaterale, credibile e autorevole, dei processi di globalizzazione per dare risposte adeguate sia alla domanda di sviluppo e di benessere dei paesi del sud del mondo, sia alla necessità che tale sviluppo sia sostenibile in termini climatici e ambientali.

Altrimenti alcuni processi di deterioramento del pianeta non potranno che procedere come sta succedendo per il consumo di foreste (sia per finalità agricole che energetiche) che negli ultimi sette anni ha viaggiato al ritmo di 7,3 milioni di ettari di foresta ogni anno. Mentre per effetto dell’inaridimento di vaste aree, aumenta il numero di persone che soffrono la fame (25 mil di persone in più nella sola Africa sub sahariana), per non parlare dell’esplosione che ha avuto il fenomeno dei profughi ambientali.

Di fronte a queste sfide il mondo imprenditoriale italiano ed il governo chiedono che si blocchi la politica europea, che si continui con l’andazzo che ha portato l’Italia ad aumentare le sue emissioni del 12% rispetto ai limiti di Kyoto, rinviando ad un avveniristico e salvifico nucleare la soluzione del problema.
Sfugge ai nostri che nel frattempo si vanno accumulando le multe per Kyoto, il nostro debito ha già superato il miliardo e 100 milioni di euro.

Ma se l’energia è il banco di prova della capacità di innovazione del sistema Italia, vanno seriamente prese in esame anche le altre politiche, che consentono o di rendere più efficace la battaglia contro i cambiamenti climatici, o di valorizzare le risorse originali del nostro Paese, parlo dei rifiuti come del paesaggio, dei beni culturali come delle bonifiche, senza dimenticare l’istruzione e la ricerca. Ma forse sopra a tutto oggi si deve concentrare l’attenzione sulla questione della legalità, che è davvero quella che rischia, insieme all’insipienza della classe dirigente, di condannare l’Italia al declino e alla marginalità.
Non è un caso che già esistono, accanto ad episodi “tradizionali” come quelli recenti di Crotone, nuove infiltrazioni delle ecomafie nel campo delle energie alternative (dell’eolico in particolare).

Per quanto ci riguarda, contro l’intensa propaganda per fare dell’ambientalismo il capro espiatorio dei ritardi di questo Paese, dobbiamo con orgoglio rivendicare all’ambientalismo la capacità di rappresentare con spirito positivo ed innovatore l’interesse generale, perché rappresenta l’unica prospettiva che riesce a leggere insieme le tre crisi, proponendo una risposta per uscirne, e legandole al bisogno di una politica lungimirante e che valorizzi l’interdipendenza.
Insomma la risposta alla crisi energetica dal punto di vista ambientalista mi sembra la chiave principale attraverso cui oggi si può parlare di sostenibilità.

* Presidente nazionale Legambiente

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