[29/09/2008] Parchi

Newtok, Alaska: cominciato l´esodo dalla ground zero del clima

FIRENZE. «Quando Peter era un bambino, i vecchi del paese gli raccontarono che sarebbe arrivato un cambiamento. Ora Peter è vecchio, e racconta ai bambini che il cambiamento è arrivato».

La storia di Peter, esquimese di etnia Yup’ik che vive nella sperduta comunità costiera di Newtok (Alaska), è narrata nell’edizione domenicale del “Guardian”. Se dalle remote lande boreali le sue vicende hanno attraversato il mondo e sono giunte fino a noi, è a causa del fatto che il villaggio di Newtok si è accorto di trovarsi nel posto sbagliato. Sta scomparendo, infatti, per colpa dello scioglimento del permafrost e del conseguente abbassamento del suolo: «anni fa, tutto ciò che Peter poteva vedere dalla sua finestra era la terraferma che si allungava nell’orizzonte. Adesso l’acqua è alle porte del villaggio, sempre più vicino a casa di Peter, e si mangia la terra. Presto sarà il turno di Newtok di scomparire».

Newtok, già definita come “Ground Zero del surriscaldamento globale”, è infatti la prima comunità ad essere obbligata ad emigrare a causa del surriscaldamento climatico e del conseguente scioglimento anomalo del permafrost. La storia dei suoi 320 abitanti era già stata portata all’attenzione del mondo dal “NY Times” nel maggio 2007, e rilanciata in Italia da “Repubblica”: la piccola comunità, si leggeva, avrebbe dovuto trasferirsi «entro un decennio» a causa della continua diminuizione della stabilità delle case del villaggio, poggianti su un terreno non più reso solido dal ghiaccio. L’articolo del Guardian di ieri cita dati Nasa per cui «le temperature sono cresciute in Alaska negli ultimi 50 anni più che in ogni altra parte del mondo: 4 gradi in media e fino a 10 gradi in inverno»: ciò sta causando, oltre all’inclinazione delle case ad una velocità sempre maggiore, un abbassamento del suolo di «oltre un pollice (2,54 cm) l’anno» e aumentando l’erosione marina «ad un ritmo di 90 piedi (30 m) l’anno».

Il fatto è che, con un anticipo di vari anni rispetto alle previsioni, l’esodo sta per iniziare, e nelle previsioni dovrebbe completarsi entro il 2012. Su un’isola situata 14 km più a sud sono in via di completamento le prime tre case, costruite dagli abitanti di Newtok stessi e già assegnate ad alcuni anziani del villaggio. Il nuovo centro, edificato su una collina dove il mare non potrà sicuramente arrivare almeno per alcuni decenni, prenderà il nuovo nome di Mertarvik.

«La cosa peggiore» – ha raccontato il 72enne Peter all’inviato del Guardian - «sono state le frequenti osservazioni dei forestieri per cui gli abitanti di Newtok si sarebbero dovuti trasferire in massa a Bethel o ad Anchorage, o traslocare in uno dei villaggi vicini che non sono stati messi in pericolo dal riscaldamento. Ciò non avverrà mai. Volevano spostarci in una specie di campo di concentramento ad Anchorage, ma noi non possiamo vivere in città. Non ci siamo abituati». La comunità Yup’ik, infatti, gode di uno speciale status amministrativo di protezione della propria identità tradizionale, essendo essa strettamente legata alla caccia, alla pesca e al territorio dove è stanziata. Il suo stesso calendario assegna i nomi dei mesi alle relative prede: marzo è il mese delle foche, aprile quello degli uccelli, la stagione estiva vede il tempo delle renne e dei caribù, e del pesce che viene pescato.

E’ stato calcolato che il sostegno, da parte delle autorità federali, alla costruzione del nuovo villaggio e al trasferimento della comunità, avrà un costo per i contribuenti americani di circa 130 milioni di dollari: una cifra notevole a causa delle enormi difficoltà logistiche per creare o restaurare infrastrutture in regioni così sperdute. Peraltro la situazione è aggravata dal fatto che, al di là del tragico valore simbolico del caso di Newtok, su 213 villaggi di comunità native esistenti in Alaska, 184 sono già «seriamente danneggiati da erosione e allagamenti». Estendendo i calcoli all’intero stato dell’Alaska, «il conto attuale delle riparazioni necessarie per infrastrutture danneggiate dalle conseguenze del surriscaldamento ammonta già a 3 miliardi di dollari, e potrebbe salire, secondo alcune stime, a 80 miliardi di dollari nel 2080».

Torna all'archivio