[18/09/2008] Comunicati

Crisi, Castagnola: «Necessario diverso indirizzo risorse, ma manca forza politica»

LIVORNO. La crisi sarà lunga e dolorosa, e su questo sembrano ormai tutti abbastanza d’accordo, mentre il dibattito prosegue tra interventisti e non. Tra chi cioè crede che sia necessario che lo stato si dia delle regole di protezione nei confronti del mercato e chi continua a sostenere che il mercato deve essere lasciato libero di autoregolamentarsi come unico vaccino possibile per superare la crisi economico finanziaria in atto.

Nessuno però che sembra azzardare un´analisi di fondo per mettere in evidenza che è proprio questo modello che non ha funzionato e come scriveva ieri su questo giornale Alessandro Farulli: «Le azioni si limitano ad accorgimenti, pezze di qui e di là, salvataggi e vittime sacrificali, interventi dello Stato o briglie sciolte al mercato: una giostra dalla quale bisognerebbe scendere a prescindere dal fatto che questo modello ha pure messo alle corde il pianeta dal punto di vista dei flussi di materia e di energia ed è già assai insostenibile pure dal punto di vista sociale».

L’analisi abbiamo provato a farla oggi con Alberto Castagnola, economista presidente di Formin, e membro della Città dell´altra economia di Roma, al quale abbiamo chiesto anche se vi sono possibilità di uscita da questo tunnel che sta diventando sempre più stretto e buio
«E’ dagli anni ’90 che la sfera finanziaria ha cominciato ad espandersi e ad avere proporzioni enormi, molto più vaste dell’economia materiale. Basti pensare che l’insieme delle operazioni finanziarie vale 1500 miliardi di dollari al giorno, mentre tutto il commercio estero internazionale di un anno circa 6500 miliardi, che equivale a circa quattro giorni dell’economia finanziaria. Questo significa che il sistema dominante ha spostato i suoi meccanismi di accumulazione e profitto nella sfera finanziaria e che attualmente i flussi d’interesse stanno più nella sfera finanziaria che in quella materiale».

Quindi l’economia di carta si è mangiata quella reale?
«Attenzione, perché dire economia di carta sembrerebbe di parlare di qualche cosa che non esiste. Mentre invece dietro a questo tipo di economia ci sono soldi reali e ingenti guadagni. Il meccanismo delle scatole cinesi che sta dietro alla vicenda dei mutui americani e che è venuto adesso alla luce, dimostra come funziona questo sistema: il valore finanziario valeva molto di più dei mutui stessi, ma in ognuno dei passaggi di moltiplicazione chi gestiva il gioco ci guadagnava e anche tanto. E sono meccanismi che valgono per moltissime operazioni finanziarie, ad esempio gli hedge found».

Ma che si stanno rivelando fallimentari
«Questo è il terzo punto dell’analisi. Gli Stati si trovano di fronte a questa situazione che ha preso la mano bloccando questi titoli, la conseguenza è o un’ipotesi di fallimento o il fallimento effettivo. Si possono allora fare due cose: intervenire oppure no. Ma il non intervento viene escluso per un motivo molto semplice; se gli Usa non avessero salvato l’istituto di credito, sarebbe venuta meno la credibilità finanziaria del paese e allora non ci sarebbero più investitori futuri. Quindi si è scelto di intervenire e questo è costato ben 85 miliardi di dollari, presi naturalmente dai contribuenti. Operazione assai diversa da una nazionalizzazione per salvare un’azienda, in questo caso per coprire il buco di una azienda si sceglie di buttare soldi pubblici in quel buco».

E questo è il sistema che i fautori del liberismo vorrebbero fosse lasciato libero di agire, nel dibattito che è in corso in questi giorni?
«Secondo le regole scritte dal sistema capitalistico se un’impresa fallisce dovrebbe essere lasciata al suo destino e liberare il campo. Questa è la teoria ma nella pratica ci sono i 28.000 dipendenti della Lehmann sulla strada. Il dibattito in corso è fuorviante, perché il sistema dice di essere liberista, ma non lo è interamente. Gli Usa, che sono l’emblema del liberismo lo dimostrano».

La globalizzazione ha accentuato questi fenomeni?
«I rapporti con la globalizzazione di questo sistema dominante hanno portato al fatto che se prima degli anni ’80 c’era la speranza che le popolazioni povere potessero pian piano accedere al mercato, adesso la situazione è che ci sono 3,5 miliardi di persone sotto la soglia della povertà o che hanno un reddito talmente basso da essere - lo dico brutalmente - fuori dal mercato. Quindi non c’è più nessun interesse a salvare queste popolazioni. A monte della globalizzazione c’è quindi un meccanismo che impedisce di occuparsi della popolazione mondiale che vive in stato di povertà. Non interessa. Ed è un meccanismo che ha determinato danni gravissimi dal punto di vista ambientale e sociale, basta citare due esempi per tutti: lo scioglimento dei ghiacciai e l’Aids. Il problema è il fatto che non è tanto la crisi di oggi a spaventare quanto il fatto che a tutt’oggi non ci siano tracce di provvedimenti in grado di invertire la tendenza di fondo. Lo stesso protocollo di Kyoto è la dimostrazione che ancora non c’è intenzione di invertire i meccanismi; ci sono alcuni movimenti a livello statuale ma ancora del tutto insufficienti».

Ma è una situazione che ci porta sempre più a segare il ramo su cui siamo seduti, per usare una metafora. Come se ne esce?
«Il sistema non si avvia verso la sparizione, si sposta verso altro e ha ancora diversi anni di sopravvivenza, naturalmente con costi altissimi sulle popolazioni. Questa è la realtà. I sistemi per invertire la rotta ci sarebbero, ma sarebbe necessario indirizzare in maniera diversa le risorse e nessuna forza politica è in grado di farlo. Non ci sono difficoltà materiali, implicherebbe però un cambiamento radicale e ci vorrebbero dei tempi, ma manca la forza politica per farlo».

Se la governance fosse assunta da un organismo terzo, tipo l’Onu?
«Era previsto nel 1944 quando è stato creato, che l’Onu svolgesse questo ruolo ma non è mai stato messo nelle condizioni di farlo. Adesso ci vorrebbe un’Onu radicalmente diversa e dovrebbe farsi perdonare 60 anni di inattività».

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