[24/04/2006] Rifiuti

Quella sottile differenza fra la riduzione e i giochi di prestigio

LIVORNO. Sarà perché i sistemi di contabilizzazione si sono fatti sempre più precisi, o perché l’obsolescenza di alcuni prodotti è sempre più pianificata, o ancora, perché gli impianti di smaltimento di rifiuti, ma anche di recupero, non li vuole nessuno (sindrome nimby), fatto sta che la parola «riduzione» affiancata a quella di «rifiuto» viene sempre più individuata come la pietra filosofale di una corretta politica di gestione dei rifiuti.

Riduzione, dunque. In special modo riduzione alla fonte. Ma per ragionarne con cognizione di causa occorre specificare il contesto quanto individuare, appunto, la fonte. Per chi si occupa dell’analisi dei flussi di materia è banale osservare che in una economia globalizzata «la fonte» del rifiuto è la misurazione del prelievo delle materie prime da cui si formano i prodotti destinati al consumo. Da questo punto di vista, su scala globale, il prelievo di materie prime è costantemente in crescita a dispetto di altre due parole chiave in voga da anni: postindustriale e dematerializzazione.

Infatti, la potente spinta all’industrializzazione delle economie asiatiche (ma non solo) e l’obsolescenza programmata di molti prodotti, sovrastano di molto la diminuzione di materia utilizzata per unità di prodotto quanto la terziarizzazione delle economie occidentali. Il tedesco «Wuppertal Institut» ha calcolato che per raggiungere una stabilità fra prelievi di materie prime e rifiuti prodotti, occorrerebbe ridurre del 90% in 50 anni gli attuali flussi di materia.

Ma la parola riduzione, più o meno propriamente, viene adoperata anche rispetto a fasi di gestione intermedia dei rifiuti. Ad esempio le raccolte differenziate. In questo caso si intende la parola riduzione come riduzione dei rifiuti da smaltire. Anche questo è vero. Ma in parte. Nel senso che, variamente, una parte dei materiali raccolti in modo differenziato produce anch’essa dei rifiuti destinati allo smaltimento (il recupero di un chilo di carta produce circa mezzo chilo di rifiuto, spesso pericoloso, che va smaltito o avviato a recupero energetico).
Anche la termocombustione (incenerimento) con o senza recupero di energia è una forma di riduzione. Infatti, secondo il tipo di frazione secca combustibile che si incenerisce, fatto 100 ciò che si immette, si avrà una frazione residua (ceneri) che varia dal 30 al 7/8 %. E’ vero che le ceneri possono essere facilmente inertizzate e riutilizzate ma ciò non avviene, neanche con l’utilizzo delle migliori tecnologie disponibili, ad emissioni zero.

Insomma, in presenza di un aumento costante dei flussi di materia, ciò che è ragionevole attendersi, a patto di applicare operativamente convinte politiche di aggressione del problema (che però non si vedono neanche all’orizzonte), è una, nient’affatto disprezzabile, riduzione della… crescita dei rifiuti. Altrimenti, in assenza di una diminuzione dei prelievi e dei flussi di materia, ciò che può darsi, in termini complessivi, non è una riduzione dei rifiuti, ma uno spostamento del problema in termini spaziali. Esattamente ciò che negli ultimi dieci anni si è verificato fra le virtuose aree del nord e le meno virtuose aree del centro e del sud del Paese. Oppure fra le province più o meno virtuose entro la stessa regione. Ma anche, sembrerebbe un paradosso, fra le regioni meno virtuose e le nazioni europee più virtuose (l’amianto italiano va quasi tutto nelle discariche tedesche). Come nel principio dei vasi comunicanti, il rifiuto, quando si è formato, se sparisce da una parte riappare da un’altra. Ciò può placare le coscienze delle anime belle da una parte e gli appetiti di business dall’altra. Ma c’è differenza fra la riduzione ed un abile, e vantaggioso, gioco di prestigio.

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