[26/08/2008] Consumo

Quando il low cost è cattivo

LIVORNO. Abbiamo già scritto pochi giorni fa sulla tendenza delle teen-ager britanniche ad utilizzare sempre più disinvoltamente capi d’abbigliamento “usa e getta”. Il (triste) successo di questa nuova moda, denominata "fast fashion" da “The Guardian”, proprio per la sua similitudine con il “fast food”, sta nel fatto che piace, costa poco e si consuma in fretta. Anche “Repubblica online” ha dato ampio spazio a questo tema, evidenziando come “Al prezzo di una maglia da boutique puoi comprarne 20 e cambiarne una al giorno per quasi un mese, sfamando il tuo bisogno di essere cool a morsi da 10 euro”.

Questa tendenza, questo look non comporta però solo problemi di mercato, di concorrenza o di analisi socio-psicologica sull’universo giovanile. I temi ripresi dai due prestigiosi quotidiani portano invece a riflettere sull’impatto ambientale e su quello legato allo sfruttamento della manodopera (anche minorile). Cioè viene posto l’accento sulla possibile equazione “prodotti a basso costo quindi manufatti che non rispettano i parametri ecologici e sociali”. Di conseguenza anche se risulta oggettivamente difficile convincere migliaia di ragazzine ad acquistare prodotti qualitativamente migliori solo sulla base di queste motivazioni, occorre tuttavia approfondire il discorso perché c’è qualcosa di più profondo da scavare. L’usa e getta è oggettivamente un disastro per le discariche britanniche ma in ogni caso la moda (salvo le debite ma limitate eccezioni) non è proprio un settore “ecofriendly”.

Se i grandi consorzi che tutelano i marchi di qualità ed i brand prestigiosi ribattono che nei loro prodotti, a differenza del “fast fashion”, i coloranti utilizzati non contengono elementi cancerogeni, sono nella stragrande maggioranza dei casi pigmenti non naturali ma di sintesi, la cui produzione e soprattutto lo smaltimento non è certo ambientalmente sostenibile.

Se è vero che i prodotti usa e getta sono realizzati in fibra sintetica o con cotone di pessima qualità, il cotone dei grandi marchi è probabilmente di elevata qualità, ma questo non è di per se un indice di sostenibilità ambientale (per coltivare il cotone si consuma un’enormità di risorse idriche e si sottrae terra fertile a scopi alimentari, vedi i temi cari ai detrattori dei biocarburanti).

Per non parlare poi dei costi (ambientali) dei trasporti. Ma anche dal punto di vista della sostenibilità sociale più di una indagine (penale) ed inchiesta giornalistica (memorabile quella di Report – Rai3) hanno dimostrato come in molti casi i prodotti cosiddetti di qualità, delle grandi “maison” spesso sono fabbricati da contoterzisti che hanno stabilimenti delocalizzati in ogni angolo del mondo e che non rispettano affatto lo statuto dei lavoratori (là dove esiste) o le minime garanzie etiche, deontologiche o sindacali. Quindi si ritorna al vecchio vizietto di guardare la pagliuzza nell’occhio altrui senza vedere la trave nel proprio….

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