[26/08/2008] Comunicati

Balenotteri, gorilla, uomini e altri animali del Creato

FIRENZE. «Se c’è tanta resistenza ad accettare le capacità emotive degli animali dipende dal modo in cui continuiamo a servirci di loro. Ammettere che soffrono quanto noi significa smettere di ucciderli, maltrattarli, rinchiuderli. Smettere, in sostanza, di considerarli inferiori a noi». Così si conclude l’interessante articolo di Cristina Nadotti nell’edizione odierna di “Repubblica”, che rifacendosi alle tristi storie di questi giorni (il balenottero che cercava di allattarsi alla chiglia di una barca, poi ucciso tra ferventi polemiche, l’interminabile lamento funebre della gorilla dello zoo di Münster per la morte del figlio) rilancia l’annosa domanda, a cui ancora la scienza non ha dato risposta definitiva: gli animali provano emozioni analoghe a quelle umane?

Il dato di fatto che viene posto, e su cui ci troviamo d’accordo, è che la stessa scienza delle emozioni umane ancora “scienza” non si può dire, e probabilmente così sarà per sempre. Abbiamo una complessa e antica filosofia della mente umana, abbiamo una psicologia moderna che si è instaurata su di essa, abbiamo scanner ultra-sofisticati che ci hanno permesso di scrutare le zone grigie e le zone rosse del cervello in tempo reale. Abbiamo la neurofisiologia, abbiamo la Tac, abbiamo le macchine della verità. Ma le macchine della verità si possono ingannare, e gli scanner non hanno ancora rivelato la composizione chimica dei sogni. E davvero non appare insensato il dubbio che forse mai si arriverà ad una reale “scienza della mente umana”.

Siamo nell’ignoranza dell’uomo, quindi, figuriamoci dell’animale. Sappiamo solo che gli animali amano, perchè lo vediamo senza ombra di dubbio. Se poi amino di un amore romantico, o di un amore opportunistico, non ha molta importanza chiarirlo perchè ancora non l’abbiamo capito con certezza neppure per l’uomo. Quel fondamentale corollario del Darwinismo chiamato “Teoria egoistica del gene” ci assegna un ruolo di mero trasporto di cromosomi, e parla di ciò che noi chiamiamo “amore” come di una disperata rincorsa verso l’unica immortalità che la scienza ha finora riconosciuto nella natura, e cioè quella del Dna. Involucri che contengono cromosomi, e che perseguono meiosi credendo di rincorrere l’amore, questo saremmo noi e questo sarebbero gli animali.

Ma è ancora una teoria, una filosofia, una religione in un certo senso: ancora cioè non è oggettività. In questo interstizio ha spazio la concezione, tipica della cultura giudaico - cristiana e in generale del mondo occidentale, che pone l’uomo al centro del cosiddetto “Creato”, quella rappresentazione antropocentrica che costituisce colonna portante delle culture associate alle due religioni monoteiste tra loro “cugine”. In questo interstizio trova pure spazio l’ostinata tendenza umana a contrapporre alla “istintività” animale la “ragione” umana, quell’aureola di superiorità rispetto alle “bestie” che ancora connatura in gran parte il nostro atteggiamento verso queste “bestie”, così istintive, così diverse e inferiori a noi.

«La natura nella sua intima essenza non è mai pacifica», scrive il regista Werner Herzog nel suo recente libro “La conquista dell’inutile”. E aggiunge successivamente: «tutto è peccato, per questo il peccato non viene riconosciuto come male». Sono concetti ripresi anche dall’etologo-entomologo Giorgio Celli nell’intervista rilasciata sabato al quotidiano “La Nazione”: nel dichiararsi favorevole all’abbattimento del balenottero perchè non c’erano «alternative all’eutanasia», Celli sostiene che ciò è coerente con quella essenziale ferocia, quell’assenza di pietà (che «è un sentimento umano») che caratterizza il mondo naturale, e quindi quello animale. Gli animali «provano dolore e soffrono, ma non hanno il concetto della morte».

Quindi – è il senso del ragionamento di Celli - l’uomo ha un concetto della morte fin dall’antichità, dalle prime sepolture e da quel culto dei morti che si costituisce in tutte le culture come primo focolaio religioso. E l’animale invece no, nonostante siano passati giorni interi in cui il mondo ha osservato una madre gorilla cantare al cielo il suo lamento “religioso” (un uomo lo chiamerebbe così), la sua “preghiera” di rianimare il figlio morto.

E questo francamente appare incomprensibile, appare in contraddizione con quell’umile rivelazione che illuminò Charles Darwin, forse davanti alle foche della Patagonia, forse di fronte alle testuggini delle Galapagos: l’uomo ha in comune con la scimmia un antenato, uno scimmione particolarmente intelligente che un giorno trovò l’amore (o forse che “si accoppiò”, dovremmo dire), e che fece due figli: uno che restò scimmione intelligente, e l’altro che divenne quella creatura arguta ma troppo egocentrica che si è data in seguito il nome di “Homo sapiens sapiens”.

E forse questo è successo ancora, anzi poichè la mutazione è il motore dell’evoluzione sicuramente sta succedendo proprio in questo momento, o forse è successo in uno zoo di Münster, proprio in questi giorni: è avvenuta forse un’evoluzione nella mente della madre gorilla, un’evoluzione che l’ha portata a pregare, come alcuni uomini fanno, invocando la clemenza del proprio Dio davanti alla morte. Come alcuni uomini fanno, o forse come tutti gli uomini fanno. Ma noi non ce ne siamo accorti: non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo accorgerci di questa preghiera, perchè il nostro mondo, il nostro sistema economico, la nostra stessa coscienza ci impongono di atteggiarci a padroni del mondo vivente, sovrani di quella natura da cui siamo così diversi, noi umani raffinati e operosi.

E quindi avanti, convinti che oltre a nutrirci della carne dell’animale (fenomeno opinabile e opinato nella società umana, non in quelle animali) sia lecito renderlo schiavo, trasformarlo in marionetta delle nostre nevrosi, metterlo all’ingrasso e coprirlo di cappottini e profumi, per nascondere quell’odore di selvatico che tanto ci disturba. E intanto, mentre ogni giorno la ricerca svela sempre più similitudini e meno divergenze tra “animale” e “uomo”, la nostra cultura sembra voler percorrere il cammino opposto, ostinandosi a non comprendere la dinamicità genetica delle specie e individuando gerarchie, che invece in natura non esistono perchè sostituite da alberi genealogici infiniti e da catene alimentari. Da una parte il padrone, dall’altra lo schiavo: altrimenti, come potremmo giustificare, senza essere sopraffatti da lancinanti sensi di colpa, la vivisezione, le gabbie 2x2 metri per galline ovaiole, e l’esistenza degli zoo?

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