[21/07/2008] Comunicati

Doha round o nuovo Keynes per una nuova eco-economia?

LIVORNO. In attesa di un nuovo Keynes, prendendo a prestito un’espressione utilizzata da Dani Rodrik sul sole 24 ore di domenica, si riuniranno da oggi a Ginevra 152 paesi membri dell’Organizzazione del commercio mondiale (Wto) e 30 ministri del commercio. La posta in gioco è quella di stabilire e decidere, per consenso unanime, le modalità con cui il Doha round dovrà realizzarsi, ovvero far partire una serie di negoziati commerciali a livello mondiale, per rivedere sussidi e barriere allo scambio delle merci, disciplinare lo scambio di servizi, tutelare berevetti e proprietà intellettuali, raggiungere accordi ambientali e di sussidi alle popolazioni non ancora a livelli accettabili di sviluppo. Con il criterio direttore dei mercati. Insomma l’apoteosi della globalizzazione dei mercati. Dopo sette anni dal primo tentativo e dall’accordo partito in Quatar (a Doha appunto) i pronostici sull’epilogo del vertice restano alquanto incerti. A pesare sull’esito del round definitivo per decidere come organizzare e dare la spinta finale all’avverarsi della liberalizzazione degli scambi economici a scala planetaria, è un macigno di dimensioni ciclopiche. Perché ad essere messa in discussione - e non tanto dal movimento nato ad hoc a Seattle- è proprio questo meccanismo di globalizzazione e, fatto inusitato fino ad oggi, «da una lista sempre più nutrita di economisti famosi» - per usare ancora a prestito i termini dell’economista dell’Harvard University, Rodrik. E come nel caso del movimento altermondialista, quello che si mette in discussione non è tanto la globalizzazione in sè, che procede per binari autonomi e pertanto non arginabile come tale e che potrebbe avere dei risvolti anche positivi, ma le regole, l’orientamento che si vuole imprimere e soprattutto chi è legittimato a farlo. Non potrà infatti essere il mercato ad accampare il diritto di essere l’autorità riconosciuta democraticamente a imprimere le regole, anche se proprio questo ha teso ad ottenere (e vorrebbero concludere) con il Doha Round. Ma il pretenderlo è una forzatura che difficilmente riuscirà ad ottenere un successo, soprattutto in un momento come quello attuale in cui i mercati economici e finanziari hanno dimostrato e stanno ancora dimostrando la loro fragilità e fallacia e chiedono (e spesso ottengono) aiuti dallo stato (prima indicati come limite al liberismo) per evitare il definitivo tracollo. La situazione negli Usa è piuttosto indicativa in tal senso.

Come è significativo il fatto che si è ribaltata la situazione riguardo a chi ha le redini in mano nello scenario mondiale, con il gruppo dei paesi emergenti che non ha più nessuna intenzione di fare da tappezzeria nelle sedi dei vertici, ma alza la voce, rivendica il diritto di parola, diventa il vero ago della bilancia sulle sorti del futuro dell’economia mondiale. Ma basta questo per affermare che allora le cose si stanno avviando verso una corretta e sostenibile direzione? Certamente no, perché se l’allargamento della base decisionale può essere considerato un elemento importante, non può certo bastare a garantire la legittimità delle scelte prese in un ambito autoconvocatosi e quindi a sanare innanzitutto un deficit di democrazia.

«I mercati globali difettano di governance, e di conseguenza difettano di legittimazione popolare» scrive ancora Dani Rodrik. E come dargli torto.

Ma c’è poi anche un´altra questione di pari peso rispetto a quella della democrazia delle regole, che riguarda le regole stesse e in quale direzione spingono. Che non è affatto argomento secondario. L’orientamento dell’economia che punti ad un governo sostenibile dei flussi di energia e di materia (rispetto ai quali l’economia è sott’ordinata e non sovr’ordinata come si vorrebbe che fosse anche nelle intenzioni del Doha round) è alla base del futuro dell’economia stessa e unico criterio direttore per il mantenimento del pianeta e della vita su di esso.

Il tema è dato da tempo dibattuto anche nelle sedi economiche oltre che in quelle politiche, ma non più centrale come lo era appena due anni fa con i rapporti Stern prima e dell´Ipcc, poi. Complice forse l’innalzamento del prezzo del petrolio o la crisi innescata dai mutui subprime, è stato riportato ai margini delle discussioni. E, l´abbiamo già osservato, si tenta l´impossibile pensando di sconfiggere la crisi rianimando le stesse dinamiche che l’hanno provocata.

Nonostante che «quel modello, lo abbiamo imparato, è insostenibile» dice giustamente Rodrik. Speriamo allora che arrivi presto un Keynes degli anni 2000. Ma soprattutto che venga ascoltato.

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