[21/04/2008] Comunicati

La non-rivoluzione del paradigma industriale ai tempi dell´iPod

LIVORNO. Il “Paradigma industriale” proposto da Nova (inserto del Sole24Ore) nell’ultimo numero, e pubblicato nella sezione “Storia di copertina”, pone come esempio l’iPod della Apple, quale emblematico caso di impresa senza fabbrica dove alla famosa società Usa restano l’innovazione e i guadagni, mentre alla Cina la produzione. L’iPod, viene spiegato nell’articolo, nasce dall’assemblaggio di 451 componenti, nessuno dei quali prodotto dall’azienda di Cupertino (Apple). Nella catena del valore i costi di produzione costituiscono circa metà del prezzo finale di vendita. L’altra metà remunera le funzioni di design, progettazione, marketing e commercializzazione. «Vista in prospettiva geografica – aggiunge – del prezzo finale di 299 dollari nelle casse delle imprese americane che curano design, trasporto e commercializzazione vanno 160 dollari. All’assemblatore cinese 4 dollari».

Questo modello, o paradigma appunto, nascerebbe negli anni Ottanta quando gli Usa hanno sentito il fiato sul collo del Giappone che metteva in crisi il loro primato in fatto di innovazione, produttività e competitività. Il timore di un’invasione gialla, causata dal boom del just in time e del total quality giapponese, ha scosso in quegli anni gli Stati Uniti, e qual è stata la riposta alla rivoluzione della fabbrica con gli occhi a mandorla? «L’impresa senza fabbrica (…) – prosegue l’articolo di Gianluca Salvatori – . Le aziende fabless – accanto alle quali certo hanno continuato a operare, seppure profondamente riorganizzate, anche imprese più tradizionali e verticalmente integrate – hanno introdotto una novità sostanziale: quella di riorganizzazioni di impresa concentrate su pochi punti di forza specifici e aperte all’integrazione con una pluralità di altri soggetti».

Se, come è indubbio, quanto affermato da questo pezzo di Nova è cronaca oggettiva di quanto sta accedendo nel mondo (non solo certo per la produzione di iPod), dipingere questo scenario con enfasi e sostenendo da ultimo che calzerebbe come un abito all’Italia, “in quanto può innestarsi senza traumi sul modello di organizzazione a rete delle nostre imprese”, ci pare un’analisi che come minimo elude a piè pari l’impatto che questo “paradigma industriale” ha sulla sostenibilità sociale e ambientale. L’impresa senza fabbrica è semplicemente un assurdo teorico, perché che se la testa è in Usa e il corpo in Cina (o sparpagliato in 100 nazioni diverse) non significa che non ci siano flussi di materia. I 451 componenti dell’iPod, lanciati come quelli di Gig robot d’acciaio, per poi essere riassemblati semplicemente delocalizzano prelievi di materia e consumi energetici, in Paesi che per di più non hanno standard di sicurezza adeguati e neppure attenzioni verso una riduzione al minimo degli impatti ambientali.

Oltretutto, e questa ci pare la cosa meno nuova di tutte, chi si ‘sporca le mani’ (e anche l’aria, e i fiumi ecc ecc) sono quelli che ci guadagnano meno di tutti. Un gran bel ‘paradigama industriale’, non c’è dubbio, talmente nuovo che ha portato all’allargamento della forbice tra i ricchi e i poveri storici, a nuovi poveri (quelli che finora mangiavano qualcosina), a un aumento dei consumi (e ciò che ne consegue in termini ambientali) grazie al fatto che così i prezzi del prodotto si sono abbassati: se non lo avesse detto due anni fa un economista come Stern (anche se con mire nucleariste) e non lo avessero messo in evidenza pure diverse multinazionali Usa che questo modello è quello che ci porta a segarci il ramo sul quale stiamo seduti, qualcuno potrebbe pensare che sono osservazioni dei soliti ambientalisti che ricusano la modernità. Ma il punto è che questo modello non è nuovo per niente!

Torna all'archivio